martedì 28 settembre 2010
Prolusione di Brunetto Salvarani per Nettuno d'oro
Cerimonia di conferimento del Nettuno d’oro e del premio Provincia di Bologna
a FRANCESCO GUCCINI
Auditorium E. Biagi – Sala Borsa - Lunedì 27 settembre 2010
“Nel frattempo, siamo nel 1961, ci fu il trasferimento a Bologna, per assoluta casualità. Una sera, a cena, mio padre raccontò di un suo collega bolognese che voleva trasferirsi a Modena ma non trovava nessuno che volesse fare il cambio con lui. Allora io dissi: - Perché non ci andiamo noi, a Bologna?
Sulle prime mio padre rimase interdetto, poi si cominciò ad abituare all’idea. Del resto a Bologna lui aveva studiato, era più vicina a Pavana anche come mentalità, perché da sempre la mia montagna è orientata su Bologna anche se è in provincia di Pistoia. Insomma, a Bologna si respirava forse anche un’altra aria, più familiare. Ci trasferimmo così in via Massarenti, dove stava un certo Zanardi, che poi sarebbe diventato mio amico, in una bellissima casa che oggi non esiste più perché l’hanno abbattuta per tirar su un palazzo. Una casa a due passi da via Paolo Fabbri, comunque.”
Così Francesco Guccini descrive il passaggio, che nella sua biografia risulterà decisivo, di lui poco più che ventenne, tra la città della Ghirlandina a quella delle due torri: anzi, dalla Città della Motta alla Cittanòva… (come rispettivamente le chiama).
A lungo, soprattutto per chi lo ascoltava per la prima volta, Guccini è apparso come il “cantautore di Bologna”, che incarnava la bolognesità al 100%. Non molti erano a conoscenza del fatto che Francesco era portatore di due altri luoghi corposi e per certi versi ingombranti: le due epopee, quella pavanese e quella modenese, consegnate alla storia con segno diametralmente opposto (segno più la prima, segno meno la seconda). Entrambe, in ogni caso, catalizzatrici di vita, ricordi, geografie, tradizioni, narrazioni. Se Guccini è modenese di nascita e pavanese di origine e di elezione definitiva (almeno a tutt’oggi), sarà bolognese di adozione per un quarantennio, a partire da quel 1961. Verrebbe da dire che, quello tra Francesco e il capoluogo emiliano-romagnolo, sia stato un innamoramento fatale, a prima vista.
Bologna, ai suoi occhi, è “la differente novità”, tutto quello che Modena non era stato: nella Città della Motta non si annusa quell’atmosfera frizzante e speciale, mentre nella Cittanòva non può capitarti di incrociare amici alla Cicio Panocia, il Grezzo e il Primitivo…
Qui, invece, puoi imbatterti in qualcuno che ti chiede tranquillamente: “C’eri tè al concerto di Gerry Mulligan?”; e sentir “fabuleggiare dei fittoni, del Gigante, di Piazza Maggiore (non piazza Grande), del Pavaglione che altro che il Portico del Collegio, lungo sì e no dieci metri, mentre quel Pavaglione raggiungeva distanze difficilmente immaginabili da mente umana…” (da Cittanòva blues). E dunque, bando alle ciance: “Go east, young man!”.
Mentre gli svaghi modenesi finiscono rapidamente derubricati a “obsolete festine” e “rozzerie”, la girandola baldanzosa del fervore dei bolognesi anni Sessanta accoglie, coccola e culla il Nostro, che intanto si è iscritto all’Università alla Facoltà di Magistero, e quindi tecnicamente è uno studente.
Nel frattempo il Cantacronache di Fausto Amodei gli apre le porte del mondo della canzone popolare (e anarchica), mentre la frequentazione dei locali diviene una pratica di vita quotidiana e notturna, una palestra di socialità e di relazioni, fra letteratura e musica. Anche se, ammette Francesco nella recente autobiografia “Non so che viso avesse”, “La nostra bohéme è stata ben pasciuta, la nostra scapigliatura più letteraria che altro”. Una bohéme confortevole, canterà più tardi.
In quegli anni febbrili (dei quali dirà “ce la siamo passata bene”) Francesco, com’è noto, si esibisce nelle osterie (ne scaturirà una vera e propria leggenda, peraltro non ingiustificata…). Più che esibizioni vere e proprie, in realtà, si tratta di serate e nottate fra amici (è appena il caso di menzionare l’importanza decisiva, o meglio il culto dell’amicizia, nel pantheon gucciniano!), in cui si mescolano bevute, chiacchiere, carte, poesie, canzoni, politica e filosofia. Qui, nella formazione del futuro cantautore, si fanno strada stili e influenze che presto si sovrappongono alla musica da balera e al rock‘n‘roll, già metabolizzati in quel di Modena: la musica goliardica e il cabaret (che sfocerà in Opera Buffa), la canzone politica di ascendenza anarchica, la chanson francese di Brassens, Brel, Moustaki, Ferré, e poi la lezione di Bob Dylan.
Anni di movimento studentesco, che sta prendendo coscienza del proprio ruolo e della propria centralità sociale. In quella “Parigi in minore”, è spontaneo mettersi a fare gli intellettuali, i maledetti, gli “abbaialuna”…
Anni della magnifica invenzione dell’Osteria delle Dame, voluta da un domenicano sui generis come padre Michele Casali, fra l’altro promotore dei celebri “Martedì di San Domenico”: tipica figura di uomo di cultura e di azione, non incasellabile, già reduce da un’esperienza di impresario teatrale a Parigi, bruciato non solo dalla passione per Tommaso d’Aquino ma anche da quella per la cultura popolare e per le generazioni più giovani. “Voglio metter su un locale per i giovani – dice padre Michele a Francesco – e ho già il posto: tu ci staresti a darmi una mano a gestirlo?”. “E l’Osteria fu”.
Scriverà di questa stagione, la stagione dei “biasanot”, vent’anni dopo: “La città era meno costosa, c’erano più locali aperti la notte, più voglia anche di divertirsi e più idee che circolavano, più entusiasmo …”.
Anni, non dimentichiamolo, della passione, peraltro mai sopita, per il fumetto: dell’amicizia con Bonvi, il papà di Sturmtruppen e con Guido de Maria, vulcanico futuro ideatore di Gulp. Fumetti in TV, con il quale mette su il cabaret degli Archibusti. Di una sortita (tanto per non farsi mancar niente…) fino alle glorie televisive del Carosello, per il quale Francesco compone i testi di Salomone, pirata pacioccone…
Secondo Cittanòva blues, alle carte e alle accese partite a muscolo (= bigliardino), si alternano “alate discussioni, d’arte, filosofia, politica e varia umanità … c’era il vino e l’Osteria dei Poeti, quasi riva sinistra per nobili giovini letterati, foglietti con versi e racconti scritti a penna…”. Dove si può, senza vergogna, perdere le ore a “chiacchierare di nubi”…
Una città affollata da studenti impegnati per lo più in studi umanistici e quindi più vicini alla sua sensibilità, oltre che da ragazzi provenienti da diverse porzioni di mondo: è a Bologna, ad esempio, che Guccini s’imbatte nella chitarrista Deborah Kooperman proveniente da New York, che a sua volta gli farà conoscere Juan Carlos “Flaco” Biondini, argentino, che da allora lo accompagna fedelmente alla chitarra. È lì che Francesco comincia a scaldare il motore, appiccicandosi addosso quei temi che diverranno le riconoscibilissime costanti per i suoi dischi (allora, ancora padelloni vinilici a 33 giri!) dapprima quasi carbonari e poi sempre più diffusi e oggetto di passamano da un adolescente all’altro: lo scorrere dell’esistenza, il sentimento del tempo e il bisogno di riandare alle radici delle cose, il senso dell’essere e del non essere, i dubbi – le perplessità – le domande irrisolte, la tenerezza complice verso gli emarginati e, ovviamente, la voglia di assaggiare finalmente dov’è “il sugo del sale”.
Ma soprattutto, il coraggio di raccontare delle storie: come continuerà a fare nel corso degli anni, nelle sue canzoni, nei romanzi, nella trilogia autobiografica, nei gialli. Raccontare storie, in maniera tutta sua, nel suo insistere (come disse Montale di Gozzano) a “far cozzare l’aulico col prosaico”.
Ricorderà, anni dopo: “L’osteria, vuoi mettere? Ce n’era, allora, di osterie! In remoti vicoli e fumosi anfratti, questo sì, mi bastava cercarle. Venticinque lire un bicchiere di vino e pari grana un uovo sodo … e ci passavi le giornate, ci passavi!”. La compagnia bolognese (che annovera tra gli altri il futuro entomologo-scrittore Giorgio Celli e il poeta Adriano Spatola, componente di punta del Gruppo ’63) è costituita appunto dai classici biasanot, gente abituata a “masticare la notte”.
La fine di quest’epoca dal sapore persino epico è sancita dalla Canzone delle osterie di fuori porta, dove un autore ormai famoso trova “non più amici, ma un pubblico che ascolta le canzoni in cui credevi”, perché chi frequentava le osterie “è stanco di giocare, bere il vino e sputtanarsi”. Ed è “una morte un po’ peggiore”…
C’è un aneddoto dietro questo pezzo, narrato da Guccini in un articolo su uno dei suoi punti di riferimento, Bob Dylan:
All’osteria di Gandolfi, c’era la presenza costante del vecchio Bergamini con la sua fisarmonica, sempre intento a cantare mezzo in francese e mezzo in italiano, lui che aveva riportato dalla miniera quello strumento e la silicosi. Un giorno, quando ormai Francesco non frequentava più il locale, nel frattempo rilevato dal Moretto, nel passarlo a salutare scorge su un mobile – fra la polvere e la confusione lasciate dagli imbianchini – la famosa fisarmonica di Bergamini: “Sai, l’ha lasciata qui – gli fa il Moretto – poi è morto, e nessuno l’è venuta a riprendere”. E così, dirà lui, “fu un colpo davvero, e scrissi quella canzone Le osterie fuori porta anche per lui, per Bergamini, e non solo per quello che noi eravamo allora”.
Del resto, come sostiene l’italianista per eccellenza di questa città – il professor Ezio Raimondi, che dedicò a Guccini una lezione magistrale all’aula magna di Santa Lucia – la sua saggezza viene da lontano, dai cantastorie della vecchia Piazzola del mercato, nel cui canto si udiva forte “una sorta di etica, calata dentro formule e cadenze di straordinaria intensità, un vero spettacolo”.
In effetti diversi lavori gucciniani possono dirsi profondamente bolognesi, in toto: quelli che spiccano per bolognesità, a mio giudizio, restano Opera Buffa, Stanze di vita quotidiana e, ovviamente Via Paolo Fabbri 43.
Lavori intrisi degli umori di città, concepiti nella vita petroniana nell’arco di tre lustri (1963-1978). Nelle note di copertina de L’isola non trovata compare un’autopresentazione rivelativa: “di Modena, ma ormai bolognese convinto”.
Ma di Bologna Guccini canterà spesso, oltre a quelle canzoni sgorgate in diretta nella temperie della città adottiva: in Eskimo (“Credevo che Bologna fosse mia”), in Farewell e naturalmente nel pezzo intitolato Bologna (da Metropolis, 1981), su cui torneremo, fino alla splendida milonga di Scirocco (da Signora Bovary, 1987). In un’epoca, in ogni caso, in cui l’autore si mostra già largamente disincantato nei confronti della Cittanòva… Con il grande concerto di Piazza Maggiore del 21 giugno 1984 a fare da spartiacque, come un estremo atto d’amore di un’amante che sente di aver cominciato a perdere la fiducia dell’amato…
Ma veniamo all’idea di città in Guccini. In realtà, quello della città (piccola, grande, o media, italiana o straniera) è un contesto piuttosto abituale per la sua produzione artistica. Talvolta esplicitamente richiamata, talaltra sottesa, mi pare un omaggio inevitabile alla sua concretezza tutta padana, alla sua esibita terrestrità. E c’è, com’è noto, addirittura un album intero completamente incentrato sul motivo della città, appunto Metropolis.
Normalmente, la città è vista da lui in un’angolatura negativa, problematica: si potrebbe richiamare il titolo di un pezzo del suo amico-collega bolognese Claudio Lolli, Angoscia metropolitana, e sottolineare l’abituale autopercezione di sé come montanaro e/o campagnolo inurbato (Addio) che Francesco sforna a ogni piè sospinto (“io, la montagna nel cuore”, canta ad esempio in Piccola città).
In Macaronì, il romanzo del ’97 scritto a quattro mani con Loriano Macchiavelli, si legge che “la città è piena di sorprese se solo si riesce a guardare dietro le quinte…” : il protagonista, il maresciallo Santovito, è un terrone della provincia partenopea che dopo i primi comprensibili smarrimenti si adatta alla perfezione al nuovo ambiente, la montagna tosco-emiliana.
Ma già in Vacca di un cane (1993) Guccini manifestava le sue forti perplessità di fronte all’ipotesi di traslocare dalla montagna infantile alla vita cittadina:”Non è mica un lavoro facile, andare a stare in cità. Che senso ha, cosa vuol dire, dov’è la necessità? Lì d’atorno hai la tua vita, tutta intera, quello che ti basta, tutto il tuo bisogno senza stare a cercare inutilità più o meno vaghe, di località remote e di posti sentiti dire ma non conosciuti, e forse paurosi… che cos’è poi una cità? Più grande di qui, certo. Ma quanto? Ci si può perdere?”.
Del resto, e di regola, Francesco non ama la città, con i suoi rumori, l’alienazione che di regola assale i suoi abitanti, il predominio ormai incontrastato delle automobili (lui, com’è noto, non ha mai preso neppure la patente…), e la doppia, paradossale impossibilità: tanto di stare da soli quanto di relazionarsi con gli altri. E se il Leitmotiv di Piccola città erano gli eccessi provinciali e lo scarso appeal modenesi, quello di Metropolis, in effetti, è proprio l’angoscia metropolitana.
Qui, anche la cartolina agiografica di Bologna, della sua Bologna (quella con le tre T, ovviamente torri, tortellini e tette…), viene largamente ridimensionata nel brano omonimo, assieme ai suoi tradizionali primati di cui i suoi cittadini vanno fieri. Quella Bologna che, racconta lui, l’ha sognata, prima di arrivarci: quando a Pàvana giungevano d’estate i ragazzi bolognesi, e narravano le meraviglie del Pavaglione, della Virtus, delle strade piene di gente anche alla sera ( “e quando sono arrivato sotto le due torri, la città era proprio così…”).
Guccini ha ammesso che la sua intenzione era di proporre una canzone che la narrasse così come la vedeva e la viveva, al di là dei cliché celebrativi, mescolando amore e disamore (mai odio), omaggio e rimprovero, scherma e fioretto: e in realtà c’è riuscito, pur dichiarandosi qui modenese volgare… “Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli/ col seno sul piano padano ed il culo sui colli./ Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale/ Bologna la grassa e l’umana, già un poco Romagna e in odor di Toscana”. Una città a due facce, dunque, “ricca signora che fu contadina/ benessere, ville, gioielli e salami in vetrina”, che spinge l’autore a saltabeccare di continuo fra gli estremi del singhiozzo, dettato dalla commozione per un’indubbia memoria dell’appartenenza, e del rutto, emblema della volgarità che, altrettanto indubbiamente, pure vi alberga, fino all’esplicita conclusione: “Bologna è una strana signora, volgare e matrona/ Bologna bambina per bene, Bologna busona/ Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto/ rimorso per quel che m’hai dato, che è quasi ricordo, e in odor di passato”. Di questo pezzo ha scritto bene Edmondo Berselli, un amico che è volato via troppo presto: qui “si può riascoltare insieme il realismo emiliano di Guccini, e nello stesso tempo la trasfigurazione di questo realismo in un’immagine definitiva in un ritratto dove la raffigurazione senza concessioni edulcorate si colora di una poesia materiale, un affetto trattenuto evirato nel sarcasmo”. Alcuni anni più tardi, poi, nella conversazione con Vincenzo Cerami, il rifiuto si farà irrimediabile: “Aborro Bologna perché si sta chiusi in casa, vedo le stagioni solo attraverso un giardinetto che adesso comincia a buttare qualche foglia… Troppi motori, troppa metropoli, si perde il suo essere antica, placida, bonaria.” Invece, “Pavana è più larga…”.
Prima di chiudere, è necessario aggiungere allora qualcosa su Pàvana, minuscolo borgo di mezza montagna non distante dal bailamme termale di Porretta, descritto così, di prammatica, dal Nostro: “Piccolo paesino dell’Appennino pistoiese circondato da territorio bolognese”, “dov’è già Toscana ma la voglia di raccontare è ancora tipica dell’Emilia”. Il quale, immancabilmente, soggiunge: “Sono nato a Modena, ma Modena è un’altra cosa, non mi è mai piaciuta troppo”. Per poi planare, ci potresti scommettere, su qualcosa del tipo: “Il mio luogo della memoria è Pàvana, con cui rompo continuamente le scatole, non faccio altro che parlarne. Appena uno mi chiede: Cosa pensa della situazione politica attuale?, io rispondo: Bella domanda. Pàvana, ad esempio…”.
In un’intervista, alla domanda relativa al luogo cui si sente più legato, si rinviene una risposta lapidaria, quanto esemplare: “Sicuramente Pàvana. Perché Pàvana è Macondo”. Vale a dire quello spazio immaginario supposto in Colombia, attorno al quale Gabriel Garcia Marquez ha tessuto la tela narrativa del suo splendido Cent’anni di solitudine; Eden e caos a un tempo, omphalos cosmico e attesa sede escatologica…
Senza nostalgia, però, perché parlando dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi Guccini tiene a precisare: “La cultura contadina nel film di Olmi, peraltro magistralmente raccontata, è visitata con occhi fondamentalmente romantici, nostalgici. Io invece non ho nessuna nostalgia per quel mondo. Ne parlo perché non potrei parlare d’altro, come un segno ineludibile, ma so che era un mondo duro, difficile. Era però un mondo intero, totale. Per questo oggi,nella frammentarietà del nostro presente, ci affascina…”.
Sfidando consapevolmente il rischio della retorica, chiudo sostenendo con convinzione che la poetica di Francesco, “burattinaio di parole” che in fondo ci racconta di se stesso da mezzo secolo, forte del basso quasi continuo dell’autoironia, e gli argomenti della sua fatica artistica – come si usa dire – siano in grado di parlare ancora, e di evidenziare tratti decisivi del “ritmo dell’uomo e delle stagioni” ai giovani di oggi, quelli che (come il protagonista del film di Alain Tanner) “hanno 20 anni nel 2000” (per loro fortuna) e nel 2010!
“A volte – scrive Guccini in José Pasculli, uno dei racconti della raccolta Icaro – ci troviamo di fronte a piccoli simboli che, se decodificati, ci saprebbero dire qualcosa delle nostre esistenze, o almeno ci fornirebbero una qualunque giustificazione, ma siamo sempre troppo distratti o ignoriamo troppo per poterli svelare”.
Sì, perché c’è ancora da stupirsi, apprendendo che in questo Belpaese votato alla religione dei consumi, del particulare e della celebrazione dell’apparire ad ogni costo, i cui miti umani sono i “feroci conduttori di trasmissioni false / che hanno spesso fatto / del qualunquismo un’arte” (da Cirano), c’è ancora qualcuno che “non la sopporta la gente che non sogna”; che continua a proclamarsi “fiero del suo sognare / e di questo eterno suo incespicare” e che, anche per questo, vacca d’un cane, intendiamo tenerci stretto il più a lungo possibile. Continuando a viaggiare con lui, con Francesco Guccini, - beninteso – sempre “fra la via Emilia e il West”: e sempre pronti, ovviamente, a “masticare il mondo”… per provare a intuire almeno qualche barlume “di questa cosa che chiamiamo vita”.
Brunetto Salvarani*
* Teologo e scrittore, coautore di “Di questa cosa che chiami vita. Il mondo di Francesco Guccini”, Il Margine, Trento 2008²
a FRANCESCO GUCCINI
Auditorium E. Biagi – Sala Borsa - Lunedì 27 settembre 2010
“Nel frattempo, siamo nel 1961, ci fu il trasferimento a Bologna, per assoluta casualità. Una sera, a cena, mio padre raccontò di un suo collega bolognese che voleva trasferirsi a Modena ma non trovava nessuno che volesse fare il cambio con lui. Allora io dissi: - Perché non ci andiamo noi, a Bologna?
Sulle prime mio padre rimase interdetto, poi si cominciò ad abituare all’idea. Del resto a Bologna lui aveva studiato, era più vicina a Pavana anche come mentalità, perché da sempre la mia montagna è orientata su Bologna anche se è in provincia di Pistoia. Insomma, a Bologna si respirava forse anche un’altra aria, più familiare. Ci trasferimmo così in via Massarenti, dove stava un certo Zanardi, che poi sarebbe diventato mio amico, in una bellissima casa che oggi non esiste più perché l’hanno abbattuta per tirar su un palazzo. Una casa a due passi da via Paolo Fabbri, comunque.”
Così Francesco Guccini descrive il passaggio, che nella sua biografia risulterà decisivo, di lui poco più che ventenne, tra la città della Ghirlandina a quella delle due torri: anzi, dalla Città della Motta alla Cittanòva… (come rispettivamente le chiama).
A lungo, soprattutto per chi lo ascoltava per la prima volta, Guccini è apparso come il “cantautore di Bologna”, che incarnava la bolognesità al 100%. Non molti erano a conoscenza del fatto che Francesco era portatore di due altri luoghi corposi e per certi versi ingombranti: le due epopee, quella pavanese e quella modenese, consegnate alla storia con segno diametralmente opposto (segno più la prima, segno meno la seconda). Entrambe, in ogni caso, catalizzatrici di vita, ricordi, geografie, tradizioni, narrazioni. Se Guccini è modenese di nascita e pavanese di origine e di elezione definitiva (almeno a tutt’oggi), sarà bolognese di adozione per un quarantennio, a partire da quel 1961. Verrebbe da dire che, quello tra Francesco e il capoluogo emiliano-romagnolo, sia stato un innamoramento fatale, a prima vista.
Bologna, ai suoi occhi, è “la differente novità”, tutto quello che Modena non era stato: nella Città della Motta non si annusa quell’atmosfera frizzante e speciale, mentre nella Cittanòva non può capitarti di incrociare amici alla Cicio Panocia, il Grezzo e il Primitivo…
Qui, invece, puoi imbatterti in qualcuno che ti chiede tranquillamente: “C’eri tè al concerto di Gerry Mulligan?”; e sentir “fabuleggiare dei fittoni, del Gigante, di Piazza Maggiore (non piazza Grande), del Pavaglione che altro che il Portico del Collegio, lungo sì e no dieci metri, mentre quel Pavaglione raggiungeva distanze difficilmente immaginabili da mente umana…” (da Cittanòva blues). E dunque, bando alle ciance: “Go east, young man!”.
Mentre gli svaghi modenesi finiscono rapidamente derubricati a “obsolete festine” e “rozzerie”, la girandola baldanzosa del fervore dei bolognesi anni Sessanta accoglie, coccola e culla il Nostro, che intanto si è iscritto all’Università alla Facoltà di Magistero, e quindi tecnicamente è uno studente.
Nel frattempo il Cantacronache di Fausto Amodei gli apre le porte del mondo della canzone popolare (e anarchica), mentre la frequentazione dei locali diviene una pratica di vita quotidiana e notturna, una palestra di socialità e di relazioni, fra letteratura e musica. Anche se, ammette Francesco nella recente autobiografia “Non so che viso avesse”, “La nostra bohéme è stata ben pasciuta, la nostra scapigliatura più letteraria che altro”. Una bohéme confortevole, canterà più tardi.
In quegli anni febbrili (dei quali dirà “ce la siamo passata bene”) Francesco, com’è noto, si esibisce nelle osterie (ne scaturirà una vera e propria leggenda, peraltro non ingiustificata…). Più che esibizioni vere e proprie, in realtà, si tratta di serate e nottate fra amici (è appena il caso di menzionare l’importanza decisiva, o meglio il culto dell’amicizia, nel pantheon gucciniano!), in cui si mescolano bevute, chiacchiere, carte, poesie, canzoni, politica e filosofia. Qui, nella formazione del futuro cantautore, si fanno strada stili e influenze che presto si sovrappongono alla musica da balera e al rock‘n‘roll, già metabolizzati in quel di Modena: la musica goliardica e il cabaret (che sfocerà in Opera Buffa), la canzone politica di ascendenza anarchica, la chanson francese di Brassens, Brel, Moustaki, Ferré, e poi la lezione di Bob Dylan.
Anni di movimento studentesco, che sta prendendo coscienza del proprio ruolo e della propria centralità sociale. In quella “Parigi in minore”, è spontaneo mettersi a fare gli intellettuali, i maledetti, gli “abbaialuna”…
Anni della magnifica invenzione dell’Osteria delle Dame, voluta da un domenicano sui generis come padre Michele Casali, fra l’altro promotore dei celebri “Martedì di San Domenico”: tipica figura di uomo di cultura e di azione, non incasellabile, già reduce da un’esperienza di impresario teatrale a Parigi, bruciato non solo dalla passione per Tommaso d’Aquino ma anche da quella per la cultura popolare e per le generazioni più giovani. “Voglio metter su un locale per i giovani – dice padre Michele a Francesco – e ho già il posto: tu ci staresti a darmi una mano a gestirlo?”. “E l’Osteria fu”.
Scriverà di questa stagione, la stagione dei “biasanot”, vent’anni dopo: “La città era meno costosa, c’erano più locali aperti la notte, più voglia anche di divertirsi e più idee che circolavano, più entusiasmo …”.
Anni, non dimentichiamolo, della passione, peraltro mai sopita, per il fumetto: dell’amicizia con Bonvi, il papà di Sturmtruppen e con Guido de Maria, vulcanico futuro ideatore di Gulp. Fumetti in TV, con il quale mette su il cabaret degli Archibusti. Di una sortita (tanto per non farsi mancar niente…) fino alle glorie televisive del Carosello, per il quale Francesco compone i testi di Salomone, pirata pacioccone…
Secondo Cittanòva blues, alle carte e alle accese partite a muscolo (= bigliardino), si alternano “alate discussioni, d’arte, filosofia, politica e varia umanità … c’era il vino e l’Osteria dei Poeti, quasi riva sinistra per nobili giovini letterati, foglietti con versi e racconti scritti a penna…”. Dove si può, senza vergogna, perdere le ore a “chiacchierare di nubi”…
Una città affollata da studenti impegnati per lo più in studi umanistici e quindi più vicini alla sua sensibilità, oltre che da ragazzi provenienti da diverse porzioni di mondo: è a Bologna, ad esempio, che Guccini s’imbatte nella chitarrista Deborah Kooperman proveniente da New York, che a sua volta gli farà conoscere Juan Carlos “Flaco” Biondini, argentino, che da allora lo accompagna fedelmente alla chitarra. È lì che Francesco comincia a scaldare il motore, appiccicandosi addosso quei temi che diverranno le riconoscibilissime costanti per i suoi dischi (allora, ancora padelloni vinilici a 33 giri!) dapprima quasi carbonari e poi sempre più diffusi e oggetto di passamano da un adolescente all’altro: lo scorrere dell’esistenza, il sentimento del tempo e il bisogno di riandare alle radici delle cose, il senso dell’essere e del non essere, i dubbi – le perplessità – le domande irrisolte, la tenerezza complice verso gli emarginati e, ovviamente, la voglia di assaggiare finalmente dov’è “il sugo del sale”.
Ma soprattutto, il coraggio di raccontare delle storie: come continuerà a fare nel corso degli anni, nelle sue canzoni, nei romanzi, nella trilogia autobiografica, nei gialli. Raccontare storie, in maniera tutta sua, nel suo insistere (come disse Montale di Gozzano) a “far cozzare l’aulico col prosaico”.
Ricorderà, anni dopo: “L’osteria, vuoi mettere? Ce n’era, allora, di osterie! In remoti vicoli e fumosi anfratti, questo sì, mi bastava cercarle. Venticinque lire un bicchiere di vino e pari grana un uovo sodo … e ci passavi le giornate, ci passavi!”. La compagnia bolognese (che annovera tra gli altri il futuro entomologo-scrittore Giorgio Celli e il poeta Adriano Spatola, componente di punta del Gruppo ’63) è costituita appunto dai classici biasanot, gente abituata a “masticare la notte”.
La fine di quest’epoca dal sapore persino epico è sancita dalla Canzone delle osterie di fuori porta, dove un autore ormai famoso trova “non più amici, ma un pubblico che ascolta le canzoni in cui credevi”, perché chi frequentava le osterie “è stanco di giocare, bere il vino e sputtanarsi”. Ed è “una morte un po’ peggiore”…
C’è un aneddoto dietro questo pezzo, narrato da Guccini in un articolo su uno dei suoi punti di riferimento, Bob Dylan:
All’osteria di Gandolfi, c’era la presenza costante del vecchio Bergamini con la sua fisarmonica, sempre intento a cantare mezzo in francese e mezzo in italiano, lui che aveva riportato dalla miniera quello strumento e la silicosi. Un giorno, quando ormai Francesco non frequentava più il locale, nel frattempo rilevato dal Moretto, nel passarlo a salutare scorge su un mobile – fra la polvere e la confusione lasciate dagli imbianchini – la famosa fisarmonica di Bergamini: “Sai, l’ha lasciata qui – gli fa il Moretto – poi è morto, e nessuno l’è venuta a riprendere”. E così, dirà lui, “fu un colpo davvero, e scrissi quella canzone Le osterie fuori porta anche per lui, per Bergamini, e non solo per quello che noi eravamo allora”.
Del resto, come sostiene l’italianista per eccellenza di questa città – il professor Ezio Raimondi, che dedicò a Guccini una lezione magistrale all’aula magna di Santa Lucia – la sua saggezza viene da lontano, dai cantastorie della vecchia Piazzola del mercato, nel cui canto si udiva forte “una sorta di etica, calata dentro formule e cadenze di straordinaria intensità, un vero spettacolo”.
In effetti diversi lavori gucciniani possono dirsi profondamente bolognesi, in toto: quelli che spiccano per bolognesità, a mio giudizio, restano Opera Buffa, Stanze di vita quotidiana e, ovviamente Via Paolo Fabbri 43.
Lavori intrisi degli umori di città, concepiti nella vita petroniana nell’arco di tre lustri (1963-1978). Nelle note di copertina de L’isola non trovata compare un’autopresentazione rivelativa: “di Modena, ma ormai bolognese convinto”.
Ma di Bologna Guccini canterà spesso, oltre a quelle canzoni sgorgate in diretta nella temperie della città adottiva: in Eskimo (“Credevo che Bologna fosse mia”), in Farewell e naturalmente nel pezzo intitolato Bologna (da Metropolis, 1981), su cui torneremo, fino alla splendida milonga di Scirocco (da Signora Bovary, 1987). In un’epoca, in ogni caso, in cui l’autore si mostra già largamente disincantato nei confronti della Cittanòva… Con il grande concerto di Piazza Maggiore del 21 giugno 1984 a fare da spartiacque, come un estremo atto d’amore di un’amante che sente di aver cominciato a perdere la fiducia dell’amato…
Ma veniamo all’idea di città in Guccini. In realtà, quello della città (piccola, grande, o media, italiana o straniera) è un contesto piuttosto abituale per la sua produzione artistica. Talvolta esplicitamente richiamata, talaltra sottesa, mi pare un omaggio inevitabile alla sua concretezza tutta padana, alla sua esibita terrestrità. E c’è, com’è noto, addirittura un album intero completamente incentrato sul motivo della città, appunto Metropolis.
Normalmente, la città è vista da lui in un’angolatura negativa, problematica: si potrebbe richiamare il titolo di un pezzo del suo amico-collega bolognese Claudio Lolli, Angoscia metropolitana, e sottolineare l’abituale autopercezione di sé come montanaro e/o campagnolo inurbato (Addio) che Francesco sforna a ogni piè sospinto (“io, la montagna nel cuore”, canta ad esempio in Piccola città).
In Macaronì, il romanzo del ’97 scritto a quattro mani con Loriano Macchiavelli, si legge che “la città è piena di sorprese se solo si riesce a guardare dietro le quinte…” : il protagonista, il maresciallo Santovito, è un terrone della provincia partenopea che dopo i primi comprensibili smarrimenti si adatta alla perfezione al nuovo ambiente, la montagna tosco-emiliana.
Ma già in Vacca di un cane (1993) Guccini manifestava le sue forti perplessità di fronte all’ipotesi di traslocare dalla montagna infantile alla vita cittadina:”Non è mica un lavoro facile, andare a stare in cità. Che senso ha, cosa vuol dire, dov’è la necessità? Lì d’atorno hai la tua vita, tutta intera, quello che ti basta, tutto il tuo bisogno senza stare a cercare inutilità più o meno vaghe, di località remote e di posti sentiti dire ma non conosciuti, e forse paurosi… che cos’è poi una cità? Più grande di qui, certo. Ma quanto? Ci si può perdere?”.
Del resto, e di regola, Francesco non ama la città, con i suoi rumori, l’alienazione che di regola assale i suoi abitanti, il predominio ormai incontrastato delle automobili (lui, com’è noto, non ha mai preso neppure la patente…), e la doppia, paradossale impossibilità: tanto di stare da soli quanto di relazionarsi con gli altri. E se il Leitmotiv di Piccola città erano gli eccessi provinciali e lo scarso appeal modenesi, quello di Metropolis, in effetti, è proprio l’angoscia metropolitana.
Qui, anche la cartolina agiografica di Bologna, della sua Bologna (quella con le tre T, ovviamente torri, tortellini e tette…), viene largamente ridimensionata nel brano omonimo, assieme ai suoi tradizionali primati di cui i suoi cittadini vanno fieri. Quella Bologna che, racconta lui, l’ha sognata, prima di arrivarci: quando a Pàvana giungevano d’estate i ragazzi bolognesi, e narravano le meraviglie del Pavaglione, della Virtus, delle strade piene di gente anche alla sera ( “e quando sono arrivato sotto le due torri, la città era proprio così…”).
Guccini ha ammesso che la sua intenzione era di proporre una canzone che la narrasse così come la vedeva e la viveva, al di là dei cliché celebrativi, mescolando amore e disamore (mai odio), omaggio e rimprovero, scherma e fioretto: e in realtà c’è riuscito, pur dichiarandosi qui modenese volgare… “Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli/ col seno sul piano padano ed il culo sui colli./ Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale/ Bologna la grassa e l’umana, già un poco Romagna e in odor di Toscana”. Una città a due facce, dunque, “ricca signora che fu contadina/ benessere, ville, gioielli e salami in vetrina”, che spinge l’autore a saltabeccare di continuo fra gli estremi del singhiozzo, dettato dalla commozione per un’indubbia memoria dell’appartenenza, e del rutto, emblema della volgarità che, altrettanto indubbiamente, pure vi alberga, fino all’esplicita conclusione: “Bologna è una strana signora, volgare e matrona/ Bologna bambina per bene, Bologna busona/ Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto/ rimorso per quel che m’hai dato, che è quasi ricordo, e in odor di passato”. Di questo pezzo ha scritto bene Edmondo Berselli, un amico che è volato via troppo presto: qui “si può riascoltare insieme il realismo emiliano di Guccini, e nello stesso tempo la trasfigurazione di questo realismo in un’immagine definitiva in un ritratto dove la raffigurazione senza concessioni edulcorate si colora di una poesia materiale, un affetto trattenuto evirato nel sarcasmo”. Alcuni anni più tardi, poi, nella conversazione con Vincenzo Cerami, il rifiuto si farà irrimediabile: “Aborro Bologna perché si sta chiusi in casa, vedo le stagioni solo attraverso un giardinetto che adesso comincia a buttare qualche foglia… Troppi motori, troppa metropoli, si perde il suo essere antica, placida, bonaria.” Invece, “Pavana è più larga…”.
Prima di chiudere, è necessario aggiungere allora qualcosa su Pàvana, minuscolo borgo di mezza montagna non distante dal bailamme termale di Porretta, descritto così, di prammatica, dal Nostro: “Piccolo paesino dell’Appennino pistoiese circondato da territorio bolognese”, “dov’è già Toscana ma la voglia di raccontare è ancora tipica dell’Emilia”. Il quale, immancabilmente, soggiunge: “Sono nato a Modena, ma Modena è un’altra cosa, non mi è mai piaciuta troppo”. Per poi planare, ci potresti scommettere, su qualcosa del tipo: “Il mio luogo della memoria è Pàvana, con cui rompo continuamente le scatole, non faccio altro che parlarne. Appena uno mi chiede: Cosa pensa della situazione politica attuale?, io rispondo: Bella domanda. Pàvana, ad esempio…”.
In un’intervista, alla domanda relativa al luogo cui si sente più legato, si rinviene una risposta lapidaria, quanto esemplare: “Sicuramente Pàvana. Perché Pàvana è Macondo”. Vale a dire quello spazio immaginario supposto in Colombia, attorno al quale Gabriel Garcia Marquez ha tessuto la tela narrativa del suo splendido Cent’anni di solitudine; Eden e caos a un tempo, omphalos cosmico e attesa sede escatologica…
Senza nostalgia, però, perché parlando dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi Guccini tiene a precisare: “La cultura contadina nel film di Olmi, peraltro magistralmente raccontata, è visitata con occhi fondamentalmente romantici, nostalgici. Io invece non ho nessuna nostalgia per quel mondo. Ne parlo perché non potrei parlare d’altro, come un segno ineludibile, ma so che era un mondo duro, difficile. Era però un mondo intero, totale. Per questo oggi,nella frammentarietà del nostro presente, ci affascina…”.
Sfidando consapevolmente il rischio della retorica, chiudo sostenendo con convinzione che la poetica di Francesco, “burattinaio di parole” che in fondo ci racconta di se stesso da mezzo secolo, forte del basso quasi continuo dell’autoironia, e gli argomenti della sua fatica artistica – come si usa dire – siano in grado di parlare ancora, e di evidenziare tratti decisivi del “ritmo dell’uomo e delle stagioni” ai giovani di oggi, quelli che (come il protagonista del film di Alain Tanner) “hanno 20 anni nel 2000” (per loro fortuna) e nel 2010!
“A volte – scrive Guccini in José Pasculli, uno dei racconti della raccolta Icaro – ci troviamo di fronte a piccoli simboli che, se decodificati, ci saprebbero dire qualcosa delle nostre esistenze, o almeno ci fornirebbero una qualunque giustificazione, ma siamo sempre troppo distratti o ignoriamo troppo per poterli svelare”.
Sì, perché c’è ancora da stupirsi, apprendendo che in questo Belpaese votato alla religione dei consumi, del particulare e della celebrazione dell’apparire ad ogni costo, i cui miti umani sono i “feroci conduttori di trasmissioni false / che hanno spesso fatto / del qualunquismo un’arte” (da Cirano), c’è ancora qualcuno che “non la sopporta la gente che non sogna”; che continua a proclamarsi “fiero del suo sognare / e di questo eterno suo incespicare” e che, anche per questo, vacca d’un cane, intendiamo tenerci stretto il più a lungo possibile. Continuando a viaggiare con lui, con Francesco Guccini, - beninteso – sempre “fra la via Emilia e il West”: e sempre pronti, ovviamente, a “masticare il mondo”… per provare a intuire almeno qualche barlume “di questa cosa che chiamiamo vita”.
Brunetto Salvarani*
* Teologo e scrittore, coautore di “Di questa cosa che chiami vita. Il mondo di Francesco Guccini”, Il Margine, Trento 2008²
venerdì 24 settembre 2010
domenica 19 settembre 2010
"Quel mio buffo montone orientale..."
Le origini afghane di quel singolare capo di vestiario:
daKAREN HOOPER
"Per le strade di Kabul, trent´anni fa, incontravi afgani di tutte le razze: caucasi, mongoli, persiani, indiani. Era una città crocevia, dove si parlava una dozzina di lingue, dove le etnie Pashtun, Tajik, Hazara, Uzbek si sposavano fra loro. Occhi verdi, neri, a mandorla, visi chiari, olivastri, mori. C´erano anche gli hippies (ricordate la moda di quegli anni? I cappotti afgani, di montone, con o senza maniche, ricamati fuori, col pelo lungo dentro) e, come a Goa, spuntavano mercatini delle pulci ad hoc, dove i ragazzi racimolavano qualche soldo vendendo quello che avevano - libri e chitarre, jeans e musicassette.
Trent´anni fa Kabul era bellissima, con le sue moschee, palazzi e giardini..."
daKAREN HOOPER
"Per le strade di Kabul, trent´anni fa, incontravi afgani di tutte le razze: caucasi, mongoli, persiani, indiani. Era una città crocevia, dove si parlava una dozzina di lingue, dove le etnie Pashtun, Tajik, Hazara, Uzbek si sposavano fra loro. Occhi verdi, neri, a mandorla, visi chiari, olivastri, mori. C´erano anche gli hippies (ricordate la moda di quegli anni? I cappotti afgani, di montone, con o senza maniche, ricamati fuori, col pelo lungo dentro) e, come a Goa, spuntavano mercatini delle pulci ad hoc, dove i ragazzi racimolavano qualche soldo vendendo quello che avevano - libri e chitarre, jeans e musicassette.
Trent´anni fa Kabul era bellissima, con le sue moschee, palazzi e giardini..."
lunedì 13 settembre 2010
Impressioni del concerto di Torino
Notizie dal concerto di Torino, grazie al nostro inviato piemontaiss Marco:
prima parte dedicata ad amici-parenti-storie vere.
"Il frate", un paesano pavanese quasi colto che viveva di lavoretti e di vino, che, con una certa previdenza lasciava fuori di casa una busta da aprire in caso di morte,
"Il pensionato" suo vicino bolognese che gli raccontò l'episodio del ferroviere della Locomotiva, "Canzone per Piero" dedicata all'amico "vilegiante" bolognese, che oramai, aggiornato il datario, conosce da 61 anni. Con la sua usata tendenza ad andare sul concreto le definisce "Canzoni di sfigati".
Dedica ad Augusto Daolio "Noi non ci saremo" ed a Fini "Canzone di notte numero 2
("quella preferita da Fini in quanto 'pecora nera'; se ci avete creduto poi ve ne conto un'altra...").
Poi spiega le "parole dure al padre" di "Amerigo", che emigrò in America perché il padre mugnaio non gli voleva far guidare il calessino.
Segue digressione sugli autogrill e i loro cessi, per introdurre "Autogrill".
Una bellissima "Bisanzio", "Su in collina" ("Oggi i politici vogliono eliminare il senso del 25 aprile... Bisogna pacificarsi... con chi, quelli? No.")
Segue una parte del concerto di canzoni amorose: "Farewell", "Inutile", "Quattro stracci", "Vorrei".
Finale con "Cyrano", "Dio è morto", "La locomotiva".
Sottolinea l'assenza del maestro Vince Tempera "E' andato ad un raduno di pompieri di Treviso, ditemi voi..."
Grazie al Guccio per il concerto e la nuova scaletta, grazie a Marco per la recensione.
prima parte dedicata ad amici-parenti-storie vere.
"Il frate", un paesano pavanese quasi colto che viveva di lavoretti e di vino, che, con una certa previdenza lasciava fuori di casa una busta da aprire in caso di morte,
"Il pensionato" suo vicino bolognese che gli raccontò l'episodio del ferroviere della Locomotiva, "Canzone per Piero" dedicata all'amico "vilegiante" bolognese, che oramai, aggiornato il datario, conosce da 61 anni. Con la sua usata tendenza ad andare sul concreto le definisce "Canzoni di sfigati".
Dedica ad Augusto Daolio "Noi non ci saremo" ed a Fini "Canzone di notte numero 2
("quella preferita da Fini in quanto 'pecora nera'; se ci avete creduto poi ve ne conto un'altra...").
Poi spiega le "parole dure al padre" di "Amerigo", che emigrò in America perché il padre mugnaio non gli voleva far guidare il calessino.
Segue digressione sugli autogrill e i loro cessi, per introdurre "Autogrill".
Una bellissima "Bisanzio", "Su in collina" ("Oggi i politici vogliono eliminare il senso del 25 aprile... Bisogna pacificarsi... con chi, quelli? No.")
Segue una parte del concerto di canzoni amorose: "Farewell", "Inutile", "Quattro stracci", "Vorrei".
Finale con "Cyrano", "Dio è morto", "La locomotiva".
Sottolinea l'assenza del maestro Vince Tempera "E' andato ad un raduno di pompieri di Treviso, ditemi voi..."
Grazie al Guccio per il concerto e la nuova scaletta, grazie a Marco per la recensione.
domenica 12 settembre 2010
Nuova scaletta dei concerti
1.Canzone per un'Amica
2.Lettera
3.Noi non ci saremo
4.Il Frate
5.Amerigo
6.Il Pensionato
7.Autogrill
8.Canzone per Piero
9.Farewell
10.Inutile
11.Quattro Stracci
12.Vorrei
13.Su in Collina
14.Bisanzio
15.Canzone dei Dodici Mesi
16.Canzone di Notte n.2
17.Eskimo
18.Cirano
19.Dio è Morto
20.La Locomotiva
2.Lettera
3.Noi non ci saremo
4.Il Frate
5.Amerigo
6.Il Pensionato
7.Autogrill
8.Canzone per Piero
9.Farewell
10.Inutile
11.Quattro Stracci
12.Vorrei
13.Su in Collina
14.Bisanzio
15.Canzone dei Dodici Mesi
16.Canzone di Notte n.2
17.Eskimo
18.Cirano
19.Dio è Morto
20.La Locomotiva
venerdì 10 settembre 2010
doppio cd in uscita il 28 settembre 2010
dal sito Emi:
IL 28 SETTEMBRE ESCE "STORIA DI ALTRE STORIE"
Tra gli anniversari eccellenti che vengono festeggiati nel 2010 c'è anche quello di uno dei cantautori più rappresentativi e amati della storia della musica Francesco Guccini.
Ed è proprio in occasione del suo 70° anniversario che viene presentata e pubblicata "Storia di Altre Storie", l'antologia in 2 CD in edizione digipack con ricco booklet a prezzo speciale nella quale prendono posto 31 brani scelti da Guccini stesso. Impreziosiscono ulteriormente la raccolta le note scritte appositamente da Riccardo Bertoncelli, lo storico critico musicale. In più nella raccolta sono comprese le versione originale dal 45 giri e mai pubblicata su CD di "Un altro giorno è andato" e il brano "Nella giungla".
IL 28 SETTEMBRE ESCE "STORIA DI ALTRE STORIE"
Tra gli anniversari eccellenti che vengono festeggiati nel 2010 c'è anche quello di uno dei cantautori più rappresentativi e amati della storia della musica Francesco Guccini.
Ed è proprio in occasione del suo 70° anniversario che viene presentata e pubblicata "Storia di Altre Storie", l'antologia in 2 CD in edizione digipack con ricco booklet a prezzo speciale nella quale prendono posto 31 brani scelti da Guccini stesso. Impreziosiscono ulteriormente la raccolta le note scritte appositamente da Riccardo Bertoncelli, lo storico critico musicale. In più nella raccolta sono comprese le versione originale dal 45 giri e mai pubblicata su CD di "Un altro giorno è andato" e il brano "Nella giungla".
domenica 5 settembre 2010
Guccini AL concerto (del Liga)
4 settembre 2010, Liga in concerto a Bologna, sugli spalti si intravedono Francesco e Raffaella (7.19).
Poi il Liga ringrazia lui e Bologna (6,53).
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