L’edizione del Club Tenco dedicata a Guccini raccontata da un indomito gucciniano
Il tributato, a fine tributo, esce per ricordare a tutti di essere ancora vivo
(ATTENZIONE: Il pezzo è lungo quasi come una canzone
lunga di Guccini. Se ne sconsiglia vivamente la lettura ai non
gucciniani o ai gucciniani domati)
di Mauro Mercatanti
INEVITABILE PREMESSA
È l’ultima delle tre sere dell’edizione 2015 del Club Tenco, quella
sorprendentemente dedicata all’ancora vivo e vegeto Francesco Guccini.
Sul palco ci sono alcuni dei suoi “musici” storici, stanno eseguendo
“Canzone delle Osterie di Fuori Porta”, canta Juan Flaco Biondini
(essendo risaputo che il buon Francesco, 75 anni suonati, di cantare non
ne ha più voglia e non intende farsela tornare). Alla fine Flaco,
commentando il verso della canzone in cui Guccini definisce la sua
gloria di cantante “qualcosa che andrà presto, quasi come i soldi in
tasca”, si prende gioco delle capacità divinatorie del Maestro, che ha
così clamorosamente toppato le previsioni.
Ed effettivamente proprio così sembrano stare le cose: la gloria non
intende scollarsi dal corpaccione allampanato di questo “modenese
volgare”, “cullato tra i portici cosce di Mamma Bologna” e infine
ritornato a Pàvana, il “ricordo lasciato sopra i monti dell’Appennino”.
Una piccola storia tutt’altro che ignobile che, da sola, basterebbe a
raccontarci quanta distanza si è ormai materializzata tra l’epoca e
l’Italia di Guccini, fatta anche di canzoni lunghe come ere geologiche e
di parole orgogliosamente alate, e questi nostri tempi tristanzuoli, in
cui le canzoni si fanno prevalentemente col timer (perché ormai più di
un tot la gente non ascolta) e le parole si scrivono col twitter (perché
ormai più di un tweet la gente non legge).
Ed è forse per questo che quelli un po’ spaesati come me – nato e
cresciuto a piombo, pane e cantautori e poi buttato a calci in culo
dentro l’era del digitale – vedono in Guccini un punto di riferimento,
luminoso come la stella maggiore e rassicurante come un fratello
maggiore. Perché, in fondo, è anche colpa sua se mi sono affezionato
perdutamente a un mondo e a un modo che, di lì a poco, si sarebbero
inesorabilmente avviati all’estinzione. Hai presente quando ti sfilano
la sedia mentre stai per sederti o quando voti Bersani e ti ritrovi
Renzi? Ecco, una sensazione del genere. Che è poi quella che ti rende
quel curioso guazzabuglio perennemente a metà tra la malinconia (sennò
come potresti capire Guccini?) e un pizzico di compostissima rabbia
(sennò come potresti tirare su il pugno, pur rimanendo seduto, dentro a
un luogo sanremese come l’Ariston di Sanremo, in corrispondenza dei tre
punti comandati della liturgica “Locomotiva”?). Ma andiamo con ordine.
VENERDI’
L’inviato specialissimo: Mauro “Marco” Mercatanti
Q Code Mag mi ha inviato qui per raccontare questa curiosa edizione
del Tenco. Voglio dunque essere all’altezza di codesto mio primo (e
credo ultimo) pass con sopra scritto STAMPA e sotto il nome, ovviamente e
rigorosamente sbagliato.
La formula delle tre serate è presto detta: tutti gli artisti invitati
devono infilare nelle loro mini scalette un omaggio a Guccini, pescando
nel mare magnum della sua sconfinata opera e reinterpretando un suo
brano a loro piacimento.
Io, arrivando di venerdì, mi perdo tutta la serata di apertura, tra cui
Vecchioni, commosso come sempre, che legge “Bisanzio” e canta
“Incontro”. A mia volta commosso per lo scampato pericolo (non me ne
voglia il Professore ma dopo “Voglio una donnadonnadonna con la
gonnagonnagonna” ho ritenuto di bigiare sistematicamente tutte le sue
successive lezioni), mi cucco una overture con l’Orchestra Sinfonica di
Sanremo, diretta al piano dal mitologico Vince Tempera (“è là!”) e una
non meglio identificata Vanessa Tagliabue Yorke che canta con voce
troppo pulita ed educata il trittico “Radici”, “Canzone quasi d’amore” e
“Cyrano”.
Da lì in poi è tutto un andirivieni di talento puro, a tratti
indiscutibile (Bobo Rondelli fa una versione così così de “L’avvelenata”
con l’ukulele e Mauro Ermanno Giovanardi si cimenta con un improbabile
ma affascinante mix tra – giuro! – “Dio è morto” e “je t’aime moi non
plus” di Gainsbourg), a tratti insostenibile (la cantante folk inglese
Jacqui McShee, un macigno di rare proporzioni, che tra l’altro – unica
di tutta la rassegna – non omaggia Francesco).
Poi tocca al simpatico Pieraccioni, invitato più per la conclamata
guccinite che per l’imprescindibilità delle sciocchezzuole musicali che
ci propone (bella, invece, la versione di “Venezia” che affronta con
onestà). Chiude la serata di venerdì un’apparizione da cui non mi sono
ancora ripreso del tutto. Carmen Consoli, con fender rosa a tracolla,
tacchi di un chilometro e una classe che s’è dovuto far spazio sul palco
sennò non ci entrava tutta. Io non l’avevo mai vista dal vivo e ho
passato tutto il tempo a chiedermi perché. Ha iniziato, tra l’altro, con
una versione de “Il vecchio e il bambino”, solo voce e chitarra
elettrica, che ha incantato tutti e mi ha fatto pensare che prima di lei
si fosse un po’ scherzato. Poi un set tutto al femminile con pezzi
belli e tiratissimi. Insomma, per farvela breve, entro gucciniano ed
esco che non riesco più a togliermi la Consoli dal cervello. Vabbè –
penso – ci lavorerò con calma, adesso vai a letto, che s’è fatta una
certa.
SABATO
Un grande classico di tutti i tempi: gente in fila per ascoltare Guccini.
Mi sveglio pensando alla Consoli e la cosa rischia di farsi
pericolosa. Per fortuna nel pomeriggio c’è un incontro con Francesco
Guccini che parla della sua attività di scrittore. Arrivo alla sede del
Club Tenco, ricavata nella ex stazione ferroviaria di San Remo, e mi
trovo di fronte alla solita calca umana, che immancabilmente si crea
ogni qual volta si tratti di sentire Guccini (che canta, che parla o che
declama la lista della spesa, poco importa).
Ed ecco dunque il momento dell’incontro vero e proprio: dopo averlo
evocato per tutto il giorno prima, arriva il Sommo Poeta delle Osterie
di Fuori Porta. Volete la verità? Lo trovo molto vecchio e ricurvo. Ha
proprio le classiche movenze dell’anziano, quella andatura un po’
incerta di chi ha paura di cadere che avevo intravisto nell’ultimo
concerto milanese di tre/quattro anni fa, con la voce – solitamente
robusta e piena – che cominciava ad accusare un certo affaticamento. Non
mi stupì, di lì a poco, leggere della sua decisione di non fare più
concerti. Ebbene, non ho fatto in tempo a pensare a quanto fosse
invecchiato che il buon Francesco ha cominciato a parlare, facendomi
capire che il ragazzone è ancora tutto lì dentro e non solo sa ancora il
fatto suo, ma sembra che lo sappia persino meglio di prima. Chi oggi
sostiene di fare storytelling dovrebbe ascoltare Guccini raccontare una
storia, una qualunque. Verrebbe travolto da uno straordinario e
inarrivabile miscuglio di alto e basso, di umiltà e autorevolezza, di
leggerezza e profondità, di saggezza tagliente e amabili puttanate. È
ancora lui, è sempre lui e la gente gli vuole bene. Ma gli vuole bene
tanto tanto, gli vuole bene a pacchi, gli vuole bene con ostinazione
quasi, nonostante lui faccia di tutto per defilarsi da questo incessante
tsunami di affetto, al punto da essersi asserragliato nel piccolo paese
dell’appenino tosco emiliano. Niente da fare, pare che la gente si
rechi a Pàvana in pellegrinaggio, per volergli bene anche lì.
In serata torno all’Ariston per la serata finale e, camminando per
corso Matteotti, credo di capire meglio l’origine di cotanto affetto
leggendo le mattonelle che – in stile Hollywood – ricordano le canzoni
che, dal 1961, hanno vinto il Festival della canzone italiana. E
insomma, credo di poter dire che nel paese delle canzonette effimere, le
canzoni di Guccini hanno rappresentato un appiglio. Qualcosa a cui
aggrapparsi forte, per non essere spazzati via dai “Fiumi di parole” dei
Jalisse o da Povia che vorrebbe avere il becco, canzoni di cui vi sfido
a ricordare anche una sola fottutissima nota.
All’Ariston sabato sentiamo invece i raffinati Têtes de Bois che
fanno “Canzone delle situazioni differenti”; ascoltiamo una splendida
versione di “Autogrill”, completamente riscritta in inglese dal
vulcanico Bocephus King, indio-canadese scalzo, matto e strepitoso;
apprezziamo l’ottimo Cesare Basile con “La ballata degli annegati” e il
gran finale con i musicisti e gli amici di Guccini (i già Citati Juan
Flaco Biondini e Vince Tempera con, tra gli altri, Roberto Manuzzi,
Jimmy Villotti, Deborah Kooperman, Antonio Marangolo) che, oltre alle
Osterie, suonano “Noi non ci saremo”, “Asia” e “La locomotiva”, per
l’immancabile finalone ligure.
Essendo che non voglio far la figura dell’ottuso fan acritico, non
posso esimermi dal biasimare la scelta di Pacifico che, forse spiazzato
dal forfait di Samuele Bersani con cui si doveva esibire, ha offerto una
prova un po’ deboluccia e, quel che peggio, ha cantato una canzone di
Guccini che non conoscevo e che ho trovato di una bruttezza definitiva
(credo si chiami “Gli artisti” o una cosa del genere, ultimo album,
quello prima del ritiro, ora capisco perché).
Mia menzione specialissima va invece a Giovanni Truppi, un giovane
artista pazzesco, che dimostra come una nuova musica d’autore italiana,
possente e originale, sia non solo possibile ma già viva e scalciante.
Il ragazzo vien fuori in canotta e chitarra elettrica, attacca con una
versione da brivido di “Gli amici” e poi spara (letteralmente, spara)
tre pezzi da restarci secchi. Inutile che stia qua a menarla, ché tanto
s’è capito che non sono un critico musicale, però lo stesso mi permetto
di ripetervi che Giovanni Truppi va tenuto d’occhio tendendo le
orecchie. E, con questo, credo di aver chiuso sul versante della
cronaca. Andiamo dunque a chiudere.
EPILOGO
E niente, nel 2006 il Festival lo ha vinto Povia.
Sì lo ammetto, sono stato tra quelli che, in giovinezza, si sono
recati con sfrontata baldanza a bussare alla porta di via Paolo Fabbri
43, per anni leggendaria abitazione di Guccini a Bologna.
E sì lo so, non si dovrebbe mai conoscere i propri miti, perché è troppo
alto il rischio di restare delusi. Ma con lui, sappiatelo, non andava a
finire così. E infatti quella porta, per noi come per molti altri, si è
sempre aperta. Quel giorno ci invitò all’Osteria da Vito. Ci fece stare
con lui tutta la sera. Ci presentò Lucio Dalla. Ci lesse le bozze del
suo primo romanzo. Il tutto bevendo vino e fumando una sigaretta dopo
l’altra.
Trattandoci da ospiti graditi, anziché dai rompicoglioni che, in fin
dei conti, eravamo. Ci congedò verso l’una, con delicata gentilezza, per
cominciare finalmente la sua serata con i suoi amici. Ce ne andammo
felici e ubriachi persi, sbattendo contro le saracinesche chiuse di
Bologna. Da quel giorno per noi Guccini smise di essere un mito e
divenne qualcosa di più e di diverso. Sicuramente non un parente, ma
certamente non soltanto un cantante. Una persona preziosa, che col tempo
ho un po’ perso di vista (pensate che da un certo punto in poi ho
persino smesso di comprare i suoi dischi), ma che comunque sta lì, in
mezzo alle mie radici, e che tanto ha dato alla formazione del mio
gusto, del mio modo di vivere e di esprimermi e persino di quel mio
essere un po’ anziano prima di diventarlo veramente (che non è poi così
male come sembrerebbe, credetemi).
So che dopo sabato – quando alla fine è uscito sul palco a salutare il
pubblico, a ringraziare per l’affetto e a ricordarci che però, vacca
d’un cane, lui è ancora vivo – non lo rivedrò più.
Ma so anche che, comunque, continuerà a rimanere la presenza preziosa che è sempre stato.
E so infine – e sono in grado di annuciarlo vobis magno cum gaudio – che
ha realizzato quella che in una sua canzone definiva la sua “ambizione”
(e che, manco a dirlo, è diventata anche la mia): invecchiare bene.
Anzi, direi benone.