Quando gli hanno raccontato che i giovani del Pdl lo adorano quasi quanto Lucio Battisti e molto più di quel comunista di Francesco De Gregori mica si è stupito. Magari se l’è sghignazzata, perché in fondo è sempre stato attratto, come scrive Massimo Cotto, da tutto ciò che divide e che unisce, dalle dogane e dalle confluenze, dai confini e dagli incontri. Ma non si è stupito per niente. “Se i giovani di destra mi amano”, dice al fattoquotidiano.it, “la cosa è del tutto involontaria. Su questo non c’è dubbio”. E a Vanity Fair ha ribadito: “Sono innocente”.
Taglia corto, perché all’uomo – un montanaro di pianura, nato a Modena, diventato adulto nella Bologna simil rive gauche degli anni Sessanta e Settanta, ora in ritiro a Pavana, il paese della sua famiglia lungo la Porrettana, pochi metri più in là nel confine toscano, ma dove ancora si parla un dialetto molto emiliano – non piacciono, per quanto possa sembrare, le contrapposizioni. Lo incuriosiscono i giovani che lo vanno a vedere ai concerti (“spesso succede che non voglia smettere di suonare, portarlo a casa è un’impresa”, dice sua figlia Teresa), ma non ha mai raccontato di provare particolari emozioni quando alzano il pugno come a una manifestazione del Pci berlingueriano e si mostrano in t-shirt rossa con falce e martello.
Ha scritto e cantato di Carlo Giuliani, Silvia Baraldini, Ernesto Che Guevara, ma non sono queste le canzoni che hanno fatto la sua storia musicale. E’ vero, c’è La Locomotiva, anno di grazia 1972, tredici strofe scritte in mezz’ora, quella che Sergio Staino descrive come la più bella ballata di sempre, perché c’è “tutto il secolo in sintesi: il mito del progresso, l’anarchia, i fantasmi e le urgenze di un’epoca pulsante”, la storia del fuochista anarchico Pietro Rigosi che a 28 anni, il 20 luglio 1893, saltò su una macchina a vapore con l’intenzione di andare a schiantarsi contro un treno di prima e seconda classe, ma finì per saltare lui stesso deviata la sua corsa in un binario morto. E’ la canzone con cui chiude i concerti da diversi anni, ma è ancora la consuetudine a fregarlo. Per quanto la ballata sia davvero un capolavoro di sintesi e attualità, non è dichiaratamente nessuna bandiera. Anche perché Guccini non fa canzoni politiche, sarebbe riduttivo, offensivo e inesatto affermare una cosa del genere. Piuttosto, il maestrone, tocca corde inesplorate. Canta le nostre miserie quotidiane. Senza colori, anche se è uomo di sinistra, stupito e deluso da questa sinistra.
Pare comunque difficile immaginare un giovane cresciuto a bandiere tricolore, il giro di “do” alla Apicella e le convention di Publitalia, che canta la bomba proletaria, che illuminava l’aria, la fiaccola dell’anarchia. Ma lo hanno detto loro, mentre si entusiasmavano ad Atreju per un discorso di Alfano o un libro di Stefano Zecchi: la nostra colonna sonora? Battisti. E Guccini.
Amato dalla destra, apprezzato da una certa Lega basso padana, idolatrato dalla sinistra. Un destino al quale non tiene per niente: neppure un paio di settimane fa, sempre al fatto.it, ha detto che se dovesse scegliere un leader della sinistra direbbe Rosy Bindi, che tutto può sembrare, meno che una rivoluzionaria da manifesto.
Ma Guccini è così. Non è un caso che a Bologna, dove lo considerano illustre quasi alla pari di Marcello Malpighi o Guglielmo Marconi, lo chiamano ancora il maestrone. “Un barone”, dicono gli amici. Capace di divorarsi le vecchie strisce dei Peanuts e Charlie Brown con lo stesso metodo con cui studia Jorge Louis Borges. L’unica persona, Guccini, che può citare a memoria la Divina Commedia come fa Roberto Benigni. Con un vantaggio: se metti allo stesso tavolo Guccini e Benigni a inventare ottave popolari, metrica formata dai primi sei versi a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata, cose da Ludovico Ariosto o Torquato Tasso, ne uscirà vincitore sempre Guccini. “Benigni”, racconta il maestrone che dell’attore è amico da una vita, “alla fine scade nel volgare. E non è permesso in una competizione di poesia che si rispetti”.
Questo è Guccini, capace di curvare le sopracciglia quando parla di storia e della battaglia tra la marineria bolognese e quella veneziana vinta inaspettatamente dalla ciurma di Porta Lame, serioso quando spiega il percorso del Limentra tra gli Appennini, guai a chiamarlo torrente, anche se lo è, entusiasta nel raccontare come si fa a Pavana la conserva di pomodoro. Ma sarcastico e assolutamente disinteressato nel comprendere quanto, come e perché i giovani berlusconiani lo amino. “E’ una cosa involontaria”.
venerdì 30 settembre 2011
giovedì 22 settembre 2011
venerdì 16 settembre 2011
mercoledì 14 settembre 2011
martedì 13 settembre 2011
lunedì 12 settembre 2011
Guccini e Macchiavelli al Festival di Mantova
da RepubblicaBologna
Macchiavelli si finge intimidito da un migliaio di spettatori, e fa cominciare Guccini. Ripercorrono la loro storia di coppia letteraria, da quando il cantautore propose la traccia di una storia ambientata tra i minatori al giallista. Storia che diventò poi Macaronì.
gucmac1Come nasce un loro libro? Il dialogo sembra uno sketch. Guccini: «Loriano ha una trama per il prossimo giallo. Nasce da una storia vera, e insieme costruiamo la struttura e i personaggi». Macchiavelli: «nel giallo il lettore si muove su come l’investigatore interpreta gli indizi. Nella stesura capita che le cose cambino: l’assassino, i nomi». Guccini: «scrivere un giallo è divertente. A volte chiamo Loriano e gli dico: lo ammazziamo? Lui: sì, lo impicchiamo? Io: no, non mi basta! E magari qualcuno ci ascolta e ci guarda con sospetto…»
Parlano di Malastagione, dei luoghi dell’Appennino, e raccontano anche degli Elfi. «Quelli li ha visti solo Francesco!» «Sono persone che vivono dagli anni ’70, senza luce e senz’acqua, coltivano la terra e allevano animali. Non si sa quanti siano, anche perché cambiano. D’estate sono molti, d’inverno meno. Si sono chiamati Elfi per omaggiare Tolkien. Hanno anche bambini, che vanno a scuola e nell’intervallo leggono libri, ma la sera passano dal bar del paese e rimangono incantati dalla televisione».
«Con Santovito abbiamo raccontato storie dell’Appennino del passato. Con questo romanzo volevamo raccontare quelle d’oggi. Abbiamo creato un altro personaggio. L’idea di un figlio di Santovito non ci piaceva. Abbiamo scoperto che la Forestale può indagare come altre forze dell’ordine. Così abbiamo scelto una guardia forestale, Poiana», dice Loriano, e Francesco aggiunge: «e loro sono stati felicissimi. Ci sono fiction su tutti, finalmente anche su di loro!»
L’unica scena di sesso l’ha scritta Guccini. «Lui ha più esperienza», scherza Macchiavelli. «La verità è che è molto difficile scrivere di sesso, e Loriano me l’ha rifilata!» Insieme però trovano le parole dell’Appennino, quelle dialettali, che si trovano nel testo, e descrivono i luoghi, o meglio li inventano. «D’estate ci sono persone che salgono a Pavana e mi chiede della Ca’ Rossa. Non esiste! Alcuni vengono a cercare la porta verde di mio zio Amerigo, quello della canzone. Non esiste più!», ride Guccini.
Ma le storie restano, e c’è spazio anche per ricordare il fumettista Bonvi e il musicista Victor Sogliani. Guccini racconta di quella sera in cui, tanti anni fa, fecero uno scherzo a Victor: «gli avevamo fatto credere che Bonvi fosse diventato un lupo mannaro, e uno aveva anche finto di essere una vittima, uscendo dal bosco. Victor era spaventato, ed era corso alla polizia, per denunciare che il suo amico era diventato un lupo mannaro… e quelli avevano capito un vampiro… Il giorno dopo era sui giornali!»
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