Francesco spiega come è nata la canzone per Zucchero "Un soffio caldo".
Davanti al camino scoppiettante.
lunedì 27 dicembre 2010
lunedì 20 dicembre 2010
21 dicembre su Raidue: in onda "Un Soffio Caldo... Natale con Zucchero".
Martedì 21 dicembre, la prima serata di Rai Due suonerà al ritmo di Zucchero: in onda "Un Soffio Caldo... Natale con Zucchero". Zucchero si racconterà ma ci saranno anche altri artisti a parlare di lui: Sting, Ivano Fossati, Francesco Guccini, Pupi Avati, Dori Ghezzi e Roberto Baggio.
domenica 12 dicembre 2010
Scaletta del 10 dicembre 2010 a Milano
Di nuovo tutto esaurito, questa la scaletta:
Canzone per un’amica
Lettera
Noi non ci saremo
Il frate
Amerigo
Addio Lugano bella (prima strofa)
Il pensionato
Autogrill
Canzone per Piero
Inutile
Farewell
Quattro stracci
Vorrei
Su in collina
Canzone dei dodici mesi
Canzone di notte n. 2
Eskimo
Cyrano
Dio è morto
La locomotiva
Canzone per un’amica
Lettera
Noi non ci saremo
Il frate
Amerigo
Addio Lugano bella (prima strofa)
Il pensionato
Autogrill
Canzone per Piero
Inutile
Farewell
Quattro stracci
Vorrei
Su in collina
Canzone dei dodici mesi
Canzone di notte n. 2
Eskimo
Cyrano
Dio è morto
La locomotiva
giovedì 9 dicembre 2010
Autogrill - Nomadi
Francesco G. (non quello di Pàvana) ci segnala questa bella versione "nomade" di Autogrill
lunedì 29 novembre 2010
Guccini BABBO e figlio
Per la gioia di quelli che stanno preparando la tesina multidisciplinare per la maturità ecco un interessante saggio sul tema dei rapporti tra generazioni.
sabato 13 novembre 2010
venerdì 12 novembre 2010
Guccini al Puccini 9 novembre 2010 i filmati
"Gli eroi son SEMPRE tutti giovani e belli", uno dei tanti aneddoti snocciolati a Sergio Staino, Simone Cristicchi, Leonardo Pieraccioni ed il folto pubblico intervenuto all'incontro inaugurale di questa stagione di "Quelli del Puccini".
lunedì 8 novembre 2010
Un soffio caldo - Zucchero racconta com'e nato
Fabio Fazio: "Come si fa a scrivere una canzone con Francesco? Con skype?"
Zucchero Fornaciari: "Lui va con i suoi tempi: in una mese aveva fatto quattro linee!"
Zucchero Fornaciari: "Lui va con i suoi tempi: in una mese aveva fatto quattro linee!"
sabato 6 novembre 2010
9 novembre 2010 a cena con Guccini e Pieraccioni
A CENA CON: SERGIO STAINO, FRANCESCO GUCCINI, SIMONE CRISTICCHI E IL CORO DEI MINATORI DI SANTA FIORA
Grazie a Sergio Staino, avremo ospiti a cena al Bistrot del Mondo presso il Castello dell'Acciaiolo (Calenzano FI) Francesco Guccini, Simone Cristicchi e il coro dei Minatori di Santa Fiora (e molto probabilmente Leonardo Pieraccioni) che nel pomeriggio saranno al Teatro Puccini.
Insieme degusteremo (il resto della serata si svilupperà un po’ a sorpresa) in un clima di simpatia e convivialità
Salumi di Cinta senese di San Michele a Torri e crostini fiorentini,
Pappa maritata Polpettine in umido Agnello di razza massese del Becacci con verdure al forno Castagnaccio della Pina con farina di castagne del Mulino Grifoni
Tecla Madre Aglianico ‘08 IGT Colli di Salerno - Az. Agr. Terra di Vento (Campania)
Chianti Colli Fiorentini ’08 (Fiasco) DOCG Chianti Colli F.ni - Fattoria San Michele a Torri (Toscana)
Prezzo 30€, con prenotazione obbligatoria e pagamento anticipato
La partecipazione alla cena è riservata esclusivamente ai soci Slow Food
Grazie a Sergio Staino, avremo ospiti a cena al Bistrot del Mondo presso il Castello dell'Acciaiolo (Calenzano FI) Francesco Guccini, Simone Cristicchi e il coro dei Minatori di Santa Fiora (e molto probabilmente Leonardo Pieraccioni) che nel pomeriggio saranno al Teatro Puccini.
Insieme degusteremo (il resto della serata si svilupperà un po’ a sorpresa) in un clima di simpatia e convivialità
Salumi di Cinta senese di San Michele a Torri e crostini fiorentini,
Pappa maritata Polpettine in umido Agnello di razza massese del Becacci con verdure al forno Castagnaccio della Pina con farina di castagne del Mulino Grifoni
Tecla Madre Aglianico ‘08 IGT Colli di Salerno - Az. Agr. Terra di Vento (Campania)
Chianti Colli Fiorentini ’08 (Fiasco) DOCG Chianti Colli F.ni - Fattoria San Michele a Torri (Toscana)
Prezzo 30€, con prenotazione obbligatoria e pagamento anticipato
La partecipazione alla cena è riservata esclusivamente ai soci Slow Food
mercoledì 3 novembre 2010
Ancòra - Un altro giorno è andato (remixed)
La falsa partenza di "Un altro giorno è andato" con l'americana (oggi veronese) Deborah Cooperman che impone di ricominciare con un "Ancòra" mi ha sempre intrigato.
Fa un certo effetto riascoltare la canzone, nella versione senza Deborah:
Fa un certo effetto riascoltare la canzone, nella versione senza Deborah:
martedì 2 novembre 2010
Nuova canzone: "Un soffio caldo" per Zucchero
L'album di zucchero si apre con "Un soffio caldo", un pezzo scritto con Guccini:
"E' una canzone sulla mancanza di libertà di questi nostri giorni, sulla falsa libertà che ci è concessa.
Conosco Francesco da anni, sua madre era una mia grande fan e mi chiedeva sempre
di fare qualcosa con lui.
Sono cresciuto con la sua musica, è il poeta che mi ha indicato la strada.
La nostra amicizia è fatta di serate con la chitarra a suonare canzoni argentine.
Poi un giorno gli ho chiesto se avrebbe scritto un testo per me: "Se non va bene, però buttalo" mi ha detto. Ci ha messo un po, ma il testo è perfetto.
------------------------------
L'alba e i granai,
filtra di qua dal monte.
Piano si accende,
striscia e dà vita al cielo.
Scende e colora
vivida il fiume e il ponte.
Oh è tempo per noi di andare via.
Un respiro d'aria nuova.
Chiudo gli occhi e sento di già
che la stagione mia si innova.
Un soffio caldo che va,
un sogno caldo che va.
Sogni che a volte
si infrangono al mattino;
spengono l'alba, ci spengono pà.
Ma quanti cani
mordono il nostro cammino.
Ohoh, ma i sogni sai non dormono mai.
Un respiro d'aria buona.
Chiudo gli occhi e sento di già
che la stagione mia ritrova
un soffio caldo di libertà
ohohoh, la libertà.
Sotto un cielo d'aria nuova
apro gli occhi e sento di già,
sento pace nell'aurora.
Un soffio caldo di libertà,
Un sogno caldo di libertà
ohohoh, la libertà.
venerdì 29 ottobre 2010
Guccini al teatro Puccini di Firenze il 9 novembre 2010
Una nuova iniziativa dell'amico fiorentino Sergio Staino, che ha organizzato una serie di incontri presso il teatro Puccini. Il primo è quello che vede Simone Cristicchi a confronto con Francesco. Guccini vive a Pàvana, vicino ai suoi montanari amici d'infanzia, ma anche Simone nel suo piccolo, ha passato un paio di giorni gli elfi di Sambuca Pistoiese.
All'Archiginnasio di Bologna con Mingardi
22 ottobre 2010 - Organizzata dallo storico Prof. Rolando Dondarini, amico e montanaro anche lui, Francesco ha incontrato Andrea Mingardi, compagno di bevute e chiassate bolognesi, per parlare dei personaggi che hanno animato la vita cittadina. Purtroppo su youtube ancora nessuno ha messo niente dell'incontro, che deve essere stato molto interessante, per cui ci consoliamo per adesso con una storica registrazione: "La fiera di San Lazzaro" a due voci
venerdì 8 ottobre 2010
Guccini come Tiziano Ferro: "sono gay" confida a Michele Serra
Fanta-intervista di Michele Serra a Guccini
pubblicata su "Contro!", supplemento a "Cuore"
BOLOGNA - Ormai non resta che confessare, sperando nella clemenza delle autorita' statali ed ecclesiastiche. Prima le implacabili accuse del Santo Padre e del cardinal Biffi sui costumi sessuali sfrenati della citta'; oggi la raffinata ma vigorosa polemica del deputato nazi-skin Filippo Berselli (detto "esprit de finesse") che ha definito Bologna "la citta' piu' culattona del mondo". Ormai la citta' e' sola di fronte alle proprie responsabilita': e i nervi cominciano a saltare.
E' un insospettabile - il popolare cantautore Francesco Guccini - a decidere, per primo, di dare l'esempio, confessando pubblicamente le sue colpe. Ci riceve nella sua sfarzosa abitazione di via Paolo Fabbri 43, tra i cimeli equivoci raccolti lungo una vita di depravazione: tavoli, sedie, libri, addirittura quadri, insomma i classici simboli del mondo gay.
"Non potevo piu' sopportare il peso del rimorso - esordisce Francesco con la caratteristica voce effeminata - e per questo ho deciso di gettare la maschera. Sono gay da sempre. Ho avuto questa casa dal Comune vent'anni fa grazie a un assessore omosessuale, su suggerimento del sindaco transessuale. L'ho ristrutturata su progetto di un architetto feticista. E ho deciso di raccontare queste cose a te perche' sei un notissimo busone, altrimenti non saresti venuto ad abitare a Bologna".
- Dunque per tutti questi anni, tu hai mentito...
"Si', ho mentito. E non sai quanto mi e' costato fingere. Il mio modello artistico e' sempre stato Mirelle Mathieu, ma nonostante i miei sforzi mi sono subito reso conto che non sarei mai riuscito ad assomigliarle..."
- Ma tu sei un omosessuale di cultura, come ti spieghi che proprio Bologna sia diventata la capitale di noi pervertiti?
"So dirti che, nell'antichita', la citta' si chiamava Bologno. Ma attraverso i secoli la sodomia divento' una pratica cosi' diffusa da portare al cambiamento di nome. Fu il dottor Ballanzone, un noto travestito locale, a dare il colpo di grazia al buon nome della citta' inventando il tortellino, erroneamente considerato l'immagine dell'ombelico femminile: in realta', se osservato attentamente, si vede benissimo che e' un ombelico maschile".
- Hai altri pesi di cui liberarti? Approfittane...
"Anche se temo moltissimo il giudizio di Berselli non posso continuare a tenermi dentro quest'altro, terribile segreto: sono anche ebreo. Guccini viene dallo yiddish Guk-shahn, che vuol dire 'ubriacone depravato'. Ecco, ora ti ho detto tutto".
Guccini si e' sfogato. Quello che mi saluta dall'uscio di casa e' un uomo nuovo, diverso: come direbbe il cardinale Oddi, "c'e' un tempo per sbagliare e uno per rimediare". Vedendolo rasserenato, gli stringo la mano accorgendomi che e' anche negro e lo invito a riflettere sulla generosita' della vita: "Sarai anche omosessuale, ebreo e negro. Ma, rispetto a me, hai almeno la fortuna di non essere comunista".
Mi avvio lungo il viale alberato. Dalle finestre chiuse, escono soffocati ma inequivocabili i rantoli e i gemiti delle coppie irregolari.
pubblicata su "Contro!", supplemento a "Cuore"
BOLOGNA - Ormai non resta che confessare, sperando nella clemenza delle autorita' statali ed ecclesiastiche. Prima le implacabili accuse del Santo Padre e del cardinal Biffi sui costumi sessuali sfrenati della citta'; oggi la raffinata ma vigorosa polemica del deputato nazi-skin Filippo Berselli (detto "esprit de finesse") che ha definito Bologna "la citta' piu' culattona del mondo". Ormai la citta' e' sola di fronte alle proprie responsabilita': e i nervi cominciano a saltare.
E' un insospettabile - il popolare cantautore Francesco Guccini - a decidere, per primo, di dare l'esempio, confessando pubblicamente le sue colpe. Ci riceve nella sua sfarzosa abitazione di via Paolo Fabbri 43, tra i cimeli equivoci raccolti lungo una vita di depravazione: tavoli, sedie, libri, addirittura quadri, insomma i classici simboli del mondo gay.
"Non potevo piu' sopportare il peso del rimorso - esordisce Francesco con la caratteristica voce effeminata - e per questo ho deciso di gettare la maschera. Sono gay da sempre. Ho avuto questa casa dal Comune vent'anni fa grazie a un assessore omosessuale, su suggerimento del sindaco transessuale. L'ho ristrutturata su progetto di un architetto feticista. E ho deciso di raccontare queste cose a te perche' sei un notissimo busone, altrimenti non saresti venuto ad abitare a Bologna".
- Dunque per tutti questi anni, tu hai mentito...
"Si', ho mentito. E non sai quanto mi e' costato fingere. Il mio modello artistico e' sempre stato Mirelle Mathieu, ma nonostante i miei sforzi mi sono subito reso conto che non sarei mai riuscito ad assomigliarle..."
- Ma tu sei un omosessuale di cultura, come ti spieghi che proprio Bologna sia diventata la capitale di noi pervertiti?
"So dirti che, nell'antichita', la citta' si chiamava Bologno. Ma attraverso i secoli la sodomia divento' una pratica cosi' diffusa da portare al cambiamento di nome. Fu il dottor Ballanzone, un noto travestito locale, a dare il colpo di grazia al buon nome della citta' inventando il tortellino, erroneamente considerato l'immagine dell'ombelico femminile: in realta', se osservato attentamente, si vede benissimo che e' un ombelico maschile".
- Hai altri pesi di cui liberarti? Approfittane...
"Anche se temo moltissimo il giudizio di Berselli non posso continuare a tenermi dentro quest'altro, terribile segreto: sono anche ebreo. Guccini viene dallo yiddish Guk-shahn, che vuol dire 'ubriacone depravato'. Ecco, ora ti ho detto tutto".
Guccini si e' sfogato. Quello che mi saluta dall'uscio di casa e' un uomo nuovo, diverso: come direbbe il cardinale Oddi, "c'e' un tempo per sbagliare e uno per rimediare". Vedendolo rasserenato, gli stringo la mano accorgendomi che e' anche negro e lo invito a riflettere sulla generosita' della vita: "Sarai anche omosessuale, ebreo e negro. Ma, rispetto a me, hai almeno la fortuna di non essere comunista".
Mi avvio lungo il viale alberato. Dalle finestre chiuse, escono soffocati ma inequivocabili i rantoli e i gemiti delle coppie irregolari.
martedì 5 ottobre 2010
lunedì 4 ottobre 2010
Guccini e Piero Chiara
Due "provinciali" affacciati sui loro laghi, quello Maggiore per Piero, quello molto più modesto, "il bacino di Pàvana", per Francesco, ma entrambi hanno saputo trarre dai loro paesi storie universali.
Brescia oggi a Pàvana
L'inviato speciale di Brescia Oggi si spinge oltre la linea gotica per intervistare Guccini a Pàvana.
martedì 28 settembre 2010
Prolusione di Brunetto Salvarani per Nettuno d'oro
Cerimonia di conferimento del Nettuno d’oro e del premio Provincia di Bologna
a FRANCESCO GUCCINI
Auditorium E. Biagi – Sala Borsa - Lunedì 27 settembre 2010
“Nel frattempo, siamo nel 1961, ci fu il trasferimento a Bologna, per assoluta casualità. Una sera, a cena, mio padre raccontò di un suo collega bolognese che voleva trasferirsi a Modena ma non trovava nessuno che volesse fare il cambio con lui. Allora io dissi: - Perché non ci andiamo noi, a Bologna?
Sulle prime mio padre rimase interdetto, poi si cominciò ad abituare all’idea. Del resto a Bologna lui aveva studiato, era più vicina a Pavana anche come mentalità, perché da sempre la mia montagna è orientata su Bologna anche se è in provincia di Pistoia. Insomma, a Bologna si respirava forse anche un’altra aria, più familiare. Ci trasferimmo così in via Massarenti, dove stava un certo Zanardi, che poi sarebbe diventato mio amico, in una bellissima casa che oggi non esiste più perché l’hanno abbattuta per tirar su un palazzo. Una casa a due passi da via Paolo Fabbri, comunque.”
Così Francesco Guccini descrive il passaggio, che nella sua biografia risulterà decisivo, di lui poco più che ventenne, tra la città della Ghirlandina a quella delle due torri: anzi, dalla Città della Motta alla Cittanòva… (come rispettivamente le chiama).
A lungo, soprattutto per chi lo ascoltava per la prima volta, Guccini è apparso come il “cantautore di Bologna”, che incarnava la bolognesità al 100%. Non molti erano a conoscenza del fatto che Francesco era portatore di due altri luoghi corposi e per certi versi ingombranti: le due epopee, quella pavanese e quella modenese, consegnate alla storia con segno diametralmente opposto (segno più la prima, segno meno la seconda). Entrambe, in ogni caso, catalizzatrici di vita, ricordi, geografie, tradizioni, narrazioni. Se Guccini è modenese di nascita e pavanese di origine e di elezione definitiva (almeno a tutt’oggi), sarà bolognese di adozione per un quarantennio, a partire da quel 1961. Verrebbe da dire che, quello tra Francesco e il capoluogo emiliano-romagnolo, sia stato un innamoramento fatale, a prima vista.
Bologna, ai suoi occhi, è “la differente novità”, tutto quello che Modena non era stato: nella Città della Motta non si annusa quell’atmosfera frizzante e speciale, mentre nella Cittanòva non può capitarti di incrociare amici alla Cicio Panocia, il Grezzo e il Primitivo…
Qui, invece, puoi imbatterti in qualcuno che ti chiede tranquillamente: “C’eri tè al concerto di Gerry Mulligan?”; e sentir “fabuleggiare dei fittoni, del Gigante, di Piazza Maggiore (non piazza Grande), del Pavaglione che altro che il Portico del Collegio, lungo sì e no dieci metri, mentre quel Pavaglione raggiungeva distanze difficilmente immaginabili da mente umana…” (da Cittanòva blues). E dunque, bando alle ciance: “Go east, young man!”.
Mentre gli svaghi modenesi finiscono rapidamente derubricati a “obsolete festine” e “rozzerie”, la girandola baldanzosa del fervore dei bolognesi anni Sessanta accoglie, coccola e culla il Nostro, che intanto si è iscritto all’Università alla Facoltà di Magistero, e quindi tecnicamente è uno studente.
Nel frattempo il Cantacronache di Fausto Amodei gli apre le porte del mondo della canzone popolare (e anarchica), mentre la frequentazione dei locali diviene una pratica di vita quotidiana e notturna, una palestra di socialità e di relazioni, fra letteratura e musica. Anche se, ammette Francesco nella recente autobiografia “Non so che viso avesse”, “La nostra bohéme è stata ben pasciuta, la nostra scapigliatura più letteraria che altro”. Una bohéme confortevole, canterà più tardi.
In quegli anni febbrili (dei quali dirà “ce la siamo passata bene”) Francesco, com’è noto, si esibisce nelle osterie (ne scaturirà una vera e propria leggenda, peraltro non ingiustificata…). Più che esibizioni vere e proprie, in realtà, si tratta di serate e nottate fra amici (è appena il caso di menzionare l’importanza decisiva, o meglio il culto dell’amicizia, nel pantheon gucciniano!), in cui si mescolano bevute, chiacchiere, carte, poesie, canzoni, politica e filosofia. Qui, nella formazione del futuro cantautore, si fanno strada stili e influenze che presto si sovrappongono alla musica da balera e al rock‘n‘roll, già metabolizzati in quel di Modena: la musica goliardica e il cabaret (che sfocerà in Opera Buffa), la canzone politica di ascendenza anarchica, la chanson francese di Brassens, Brel, Moustaki, Ferré, e poi la lezione di Bob Dylan.
Anni di movimento studentesco, che sta prendendo coscienza del proprio ruolo e della propria centralità sociale. In quella “Parigi in minore”, è spontaneo mettersi a fare gli intellettuali, i maledetti, gli “abbaialuna”…
Anni della magnifica invenzione dell’Osteria delle Dame, voluta da un domenicano sui generis come padre Michele Casali, fra l’altro promotore dei celebri “Martedì di San Domenico”: tipica figura di uomo di cultura e di azione, non incasellabile, già reduce da un’esperienza di impresario teatrale a Parigi, bruciato non solo dalla passione per Tommaso d’Aquino ma anche da quella per la cultura popolare e per le generazioni più giovani. “Voglio metter su un locale per i giovani – dice padre Michele a Francesco – e ho già il posto: tu ci staresti a darmi una mano a gestirlo?”. “E l’Osteria fu”.
Scriverà di questa stagione, la stagione dei “biasanot”, vent’anni dopo: “La città era meno costosa, c’erano più locali aperti la notte, più voglia anche di divertirsi e più idee che circolavano, più entusiasmo …”.
Anni, non dimentichiamolo, della passione, peraltro mai sopita, per il fumetto: dell’amicizia con Bonvi, il papà di Sturmtruppen e con Guido de Maria, vulcanico futuro ideatore di Gulp. Fumetti in TV, con il quale mette su il cabaret degli Archibusti. Di una sortita (tanto per non farsi mancar niente…) fino alle glorie televisive del Carosello, per il quale Francesco compone i testi di Salomone, pirata pacioccone…
Secondo Cittanòva blues, alle carte e alle accese partite a muscolo (= bigliardino), si alternano “alate discussioni, d’arte, filosofia, politica e varia umanità … c’era il vino e l’Osteria dei Poeti, quasi riva sinistra per nobili giovini letterati, foglietti con versi e racconti scritti a penna…”. Dove si può, senza vergogna, perdere le ore a “chiacchierare di nubi”…
Una città affollata da studenti impegnati per lo più in studi umanistici e quindi più vicini alla sua sensibilità, oltre che da ragazzi provenienti da diverse porzioni di mondo: è a Bologna, ad esempio, che Guccini s’imbatte nella chitarrista Deborah Kooperman proveniente da New York, che a sua volta gli farà conoscere Juan Carlos “Flaco” Biondini, argentino, che da allora lo accompagna fedelmente alla chitarra. È lì che Francesco comincia a scaldare il motore, appiccicandosi addosso quei temi che diverranno le riconoscibilissime costanti per i suoi dischi (allora, ancora padelloni vinilici a 33 giri!) dapprima quasi carbonari e poi sempre più diffusi e oggetto di passamano da un adolescente all’altro: lo scorrere dell’esistenza, il sentimento del tempo e il bisogno di riandare alle radici delle cose, il senso dell’essere e del non essere, i dubbi – le perplessità – le domande irrisolte, la tenerezza complice verso gli emarginati e, ovviamente, la voglia di assaggiare finalmente dov’è “il sugo del sale”.
Ma soprattutto, il coraggio di raccontare delle storie: come continuerà a fare nel corso degli anni, nelle sue canzoni, nei romanzi, nella trilogia autobiografica, nei gialli. Raccontare storie, in maniera tutta sua, nel suo insistere (come disse Montale di Gozzano) a “far cozzare l’aulico col prosaico”.
Ricorderà, anni dopo: “L’osteria, vuoi mettere? Ce n’era, allora, di osterie! In remoti vicoli e fumosi anfratti, questo sì, mi bastava cercarle. Venticinque lire un bicchiere di vino e pari grana un uovo sodo … e ci passavi le giornate, ci passavi!”. La compagnia bolognese (che annovera tra gli altri il futuro entomologo-scrittore Giorgio Celli e il poeta Adriano Spatola, componente di punta del Gruppo ’63) è costituita appunto dai classici biasanot, gente abituata a “masticare la notte”.
La fine di quest’epoca dal sapore persino epico è sancita dalla Canzone delle osterie di fuori porta, dove un autore ormai famoso trova “non più amici, ma un pubblico che ascolta le canzoni in cui credevi”, perché chi frequentava le osterie “è stanco di giocare, bere il vino e sputtanarsi”. Ed è “una morte un po’ peggiore”…
C’è un aneddoto dietro questo pezzo, narrato da Guccini in un articolo su uno dei suoi punti di riferimento, Bob Dylan:
All’osteria di Gandolfi, c’era la presenza costante del vecchio Bergamini con la sua fisarmonica, sempre intento a cantare mezzo in francese e mezzo in italiano, lui che aveva riportato dalla miniera quello strumento e la silicosi. Un giorno, quando ormai Francesco non frequentava più il locale, nel frattempo rilevato dal Moretto, nel passarlo a salutare scorge su un mobile – fra la polvere e la confusione lasciate dagli imbianchini – la famosa fisarmonica di Bergamini: “Sai, l’ha lasciata qui – gli fa il Moretto – poi è morto, e nessuno l’è venuta a riprendere”. E così, dirà lui, “fu un colpo davvero, e scrissi quella canzone Le osterie fuori porta anche per lui, per Bergamini, e non solo per quello che noi eravamo allora”.
Del resto, come sostiene l’italianista per eccellenza di questa città – il professor Ezio Raimondi, che dedicò a Guccini una lezione magistrale all’aula magna di Santa Lucia – la sua saggezza viene da lontano, dai cantastorie della vecchia Piazzola del mercato, nel cui canto si udiva forte “una sorta di etica, calata dentro formule e cadenze di straordinaria intensità, un vero spettacolo”.
In effetti diversi lavori gucciniani possono dirsi profondamente bolognesi, in toto: quelli che spiccano per bolognesità, a mio giudizio, restano Opera Buffa, Stanze di vita quotidiana e, ovviamente Via Paolo Fabbri 43.
Lavori intrisi degli umori di città, concepiti nella vita petroniana nell’arco di tre lustri (1963-1978). Nelle note di copertina de L’isola non trovata compare un’autopresentazione rivelativa: “di Modena, ma ormai bolognese convinto”.
Ma di Bologna Guccini canterà spesso, oltre a quelle canzoni sgorgate in diretta nella temperie della città adottiva: in Eskimo (“Credevo che Bologna fosse mia”), in Farewell e naturalmente nel pezzo intitolato Bologna (da Metropolis, 1981), su cui torneremo, fino alla splendida milonga di Scirocco (da Signora Bovary, 1987). In un’epoca, in ogni caso, in cui l’autore si mostra già largamente disincantato nei confronti della Cittanòva… Con il grande concerto di Piazza Maggiore del 21 giugno 1984 a fare da spartiacque, come un estremo atto d’amore di un’amante che sente di aver cominciato a perdere la fiducia dell’amato…
Ma veniamo all’idea di città in Guccini. In realtà, quello della città (piccola, grande, o media, italiana o straniera) è un contesto piuttosto abituale per la sua produzione artistica. Talvolta esplicitamente richiamata, talaltra sottesa, mi pare un omaggio inevitabile alla sua concretezza tutta padana, alla sua esibita terrestrità. E c’è, com’è noto, addirittura un album intero completamente incentrato sul motivo della città, appunto Metropolis.
Normalmente, la città è vista da lui in un’angolatura negativa, problematica: si potrebbe richiamare il titolo di un pezzo del suo amico-collega bolognese Claudio Lolli, Angoscia metropolitana, e sottolineare l’abituale autopercezione di sé come montanaro e/o campagnolo inurbato (Addio) che Francesco sforna a ogni piè sospinto (“io, la montagna nel cuore”, canta ad esempio in Piccola città).
In Macaronì, il romanzo del ’97 scritto a quattro mani con Loriano Macchiavelli, si legge che “la città è piena di sorprese se solo si riesce a guardare dietro le quinte…” : il protagonista, il maresciallo Santovito, è un terrone della provincia partenopea che dopo i primi comprensibili smarrimenti si adatta alla perfezione al nuovo ambiente, la montagna tosco-emiliana.
Ma già in Vacca di un cane (1993) Guccini manifestava le sue forti perplessità di fronte all’ipotesi di traslocare dalla montagna infantile alla vita cittadina:”Non è mica un lavoro facile, andare a stare in cità. Che senso ha, cosa vuol dire, dov’è la necessità? Lì d’atorno hai la tua vita, tutta intera, quello che ti basta, tutto il tuo bisogno senza stare a cercare inutilità più o meno vaghe, di località remote e di posti sentiti dire ma non conosciuti, e forse paurosi… che cos’è poi una cità? Più grande di qui, certo. Ma quanto? Ci si può perdere?”.
Del resto, e di regola, Francesco non ama la città, con i suoi rumori, l’alienazione che di regola assale i suoi abitanti, il predominio ormai incontrastato delle automobili (lui, com’è noto, non ha mai preso neppure la patente…), e la doppia, paradossale impossibilità: tanto di stare da soli quanto di relazionarsi con gli altri. E se il Leitmotiv di Piccola città erano gli eccessi provinciali e lo scarso appeal modenesi, quello di Metropolis, in effetti, è proprio l’angoscia metropolitana.
Qui, anche la cartolina agiografica di Bologna, della sua Bologna (quella con le tre T, ovviamente torri, tortellini e tette…), viene largamente ridimensionata nel brano omonimo, assieme ai suoi tradizionali primati di cui i suoi cittadini vanno fieri. Quella Bologna che, racconta lui, l’ha sognata, prima di arrivarci: quando a Pàvana giungevano d’estate i ragazzi bolognesi, e narravano le meraviglie del Pavaglione, della Virtus, delle strade piene di gente anche alla sera ( “e quando sono arrivato sotto le due torri, la città era proprio così…”).
Guccini ha ammesso che la sua intenzione era di proporre una canzone che la narrasse così come la vedeva e la viveva, al di là dei cliché celebrativi, mescolando amore e disamore (mai odio), omaggio e rimprovero, scherma e fioretto: e in realtà c’è riuscito, pur dichiarandosi qui modenese volgare… “Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli/ col seno sul piano padano ed il culo sui colli./ Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale/ Bologna la grassa e l’umana, già un poco Romagna e in odor di Toscana”. Una città a due facce, dunque, “ricca signora che fu contadina/ benessere, ville, gioielli e salami in vetrina”, che spinge l’autore a saltabeccare di continuo fra gli estremi del singhiozzo, dettato dalla commozione per un’indubbia memoria dell’appartenenza, e del rutto, emblema della volgarità che, altrettanto indubbiamente, pure vi alberga, fino all’esplicita conclusione: “Bologna è una strana signora, volgare e matrona/ Bologna bambina per bene, Bologna busona/ Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto/ rimorso per quel che m’hai dato, che è quasi ricordo, e in odor di passato”. Di questo pezzo ha scritto bene Edmondo Berselli, un amico che è volato via troppo presto: qui “si può riascoltare insieme il realismo emiliano di Guccini, e nello stesso tempo la trasfigurazione di questo realismo in un’immagine definitiva in un ritratto dove la raffigurazione senza concessioni edulcorate si colora di una poesia materiale, un affetto trattenuto evirato nel sarcasmo”. Alcuni anni più tardi, poi, nella conversazione con Vincenzo Cerami, il rifiuto si farà irrimediabile: “Aborro Bologna perché si sta chiusi in casa, vedo le stagioni solo attraverso un giardinetto che adesso comincia a buttare qualche foglia… Troppi motori, troppa metropoli, si perde il suo essere antica, placida, bonaria.” Invece, “Pavana è più larga…”.
Prima di chiudere, è necessario aggiungere allora qualcosa su Pàvana, minuscolo borgo di mezza montagna non distante dal bailamme termale di Porretta, descritto così, di prammatica, dal Nostro: “Piccolo paesino dell’Appennino pistoiese circondato da territorio bolognese”, “dov’è già Toscana ma la voglia di raccontare è ancora tipica dell’Emilia”. Il quale, immancabilmente, soggiunge: “Sono nato a Modena, ma Modena è un’altra cosa, non mi è mai piaciuta troppo”. Per poi planare, ci potresti scommettere, su qualcosa del tipo: “Il mio luogo della memoria è Pàvana, con cui rompo continuamente le scatole, non faccio altro che parlarne. Appena uno mi chiede: Cosa pensa della situazione politica attuale?, io rispondo: Bella domanda. Pàvana, ad esempio…”.
In un’intervista, alla domanda relativa al luogo cui si sente più legato, si rinviene una risposta lapidaria, quanto esemplare: “Sicuramente Pàvana. Perché Pàvana è Macondo”. Vale a dire quello spazio immaginario supposto in Colombia, attorno al quale Gabriel Garcia Marquez ha tessuto la tela narrativa del suo splendido Cent’anni di solitudine; Eden e caos a un tempo, omphalos cosmico e attesa sede escatologica…
Senza nostalgia, però, perché parlando dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi Guccini tiene a precisare: “La cultura contadina nel film di Olmi, peraltro magistralmente raccontata, è visitata con occhi fondamentalmente romantici, nostalgici. Io invece non ho nessuna nostalgia per quel mondo. Ne parlo perché non potrei parlare d’altro, come un segno ineludibile, ma so che era un mondo duro, difficile. Era però un mondo intero, totale. Per questo oggi,nella frammentarietà del nostro presente, ci affascina…”.
Sfidando consapevolmente il rischio della retorica, chiudo sostenendo con convinzione che la poetica di Francesco, “burattinaio di parole” che in fondo ci racconta di se stesso da mezzo secolo, forte del basso quasi continuo dell’autoironia, e gli argomenti della sua fatica artistica – come si usa dire – siano in grado di parlare ancora, e di evidenziare tratti decisivi del “ritmo dell’uomo e delle stagioni” ai giovani di oggi, quelli che (come il protagonista del film di Alain Tanner) “hanno 20 anni nel 2000” (per loro fortuna) e nel 2010!
“A volte – scrive Guccini in José Pasculli, uno dei racconti della raccolta Icaro – ci troviamo di fronte a piccoli simboli che, se decodificati, ci saprebbero dire qualcosa delle nostre esistenze, o almeno ci fornirebbero una qualunque giustificazione, ma siamo sempre troppo distratti o ignoriamo troppo per poterli svelare”.
Sì, perché c’è ancora da stupirsi, apprendendo che in questo Belpaese votato alla religione dei consumi, del particulare e della celebrazione dell’apparire ad ogni costo, i cui miti umani sono i “feroci conduttori di trasmissioni false / che hanno spesso fatto / del qualunquismo un’arte” (da Cirano), c’è ancora qualcuno che “non la sopporta la gente che non sogna”; che continua a proclamarsi “fiero del suo sognare / e di questo eterno suo incespicare” e che, anche per questo, vacca d’un cane, intendiamo tenerci stretto il più a lungo possibile. Continuando a viaggiare con lui, con Francesco Guccini, - beninteso – sempre “fra la via Emilia e il West”: e sempre pronti, ovviamente, a “masticare il mondo”… per provare a intuire almeno qualche barlume “di questa cosa che chiamiamo vita”.
Brunetto Salvarani*
* Teologo e scrittore, coautore di “Di questa cosa che chiami vita. Il mondo di Francesco Guccini”, Il Margine, Trento 2008²
a FRANCESCO GUCCINI
Auditorium E. Biagi – Sala Borsa - Lunedì 27 settembre 2010
“Nel frattempo, siamo nel 1961, ci fu il trasferimento a Bologna, per assoluta casualità. Una sera, a cena, mio padre raccontò di un suo collega bolognese che voleva trasferirsi a Modena ma non trovava nessuno che volesse fare il cambio con lui. Allora io dissi: - Perché non ci andiamo noi, a Bologna?
Sulle prime mio padre rimase interdetto, poi si cominciò ad abituare all’idea. Del resto a Bologna lui aveva studiato, era più vicina a Pavana anche come mentalità, perché da sempre la mia montagna è orientata su Bologna anche se è in provincia di Pistoia. Insomma, a Bologna si respirava forse anche un’altra aria, più familiare. Ci trasferimmo così in via Massarenti, dove stava un certo Zanardi, che poi sarebbe diventato mio amico, in una bellissima casa che oggi non esiste più perché l’hanno abbattuta per tirar su un palazzo. Una casa a due passi da via Paolo Fabbri, comunque.”
Così Francesco Guccini descrive il passaggio, che nella sua biografia risulterà decisivo, di lui poco più che ventenne, tra la città della Ghirlandina a quella delle due torri: anzi, dalla Città della Motta alla Cittanòva… (come rispettivamente le chiama).
A lungo, soprattutto per chi lo ascoltava per la prima volta, Guccini è apparso come il “cantautore di Bologna”, che incarnava la bolognesità al 100%. Non molti erano a conoscenza del fatto che Francesco era portatore di due altri luoghi corposi e per certi versi ingombranti: le due epopee, quella pavanese e quella modenese, consegnate alla storia con segno diametralmente opposto (segno più la prima, segno meno la seconda). Entrambe, in ogni caso, catalizzatrici di vita, ricordi, geografie, tradizioni, narrazioni. Se Guccini è modenese di nascita e pavanese di origine e di elezione definitiva (almeno a tutt’oggi), sarà bolognese di adozione per un quarantennio, a partire da quel 1961. Verrebbe da dire che, quello tra Francesco e il capoluogo emiliano-romagnolo, sia stato un innamoramento fatale, a prima vista.
Bologna, ai suoi occhi, è “la differente novità”, tutto quello che Modena non era stato: nella Città della Motta non si annusa quell’atmosfera frizzante e speciale, mentre nella Cittanòva non può capitarti di incrociare amici alla Cicio Panocia, il Grezzo e il Primitivo…
Qui, invece, puoi imbatterti in qualcuno che ti chiede tranquillamente: “C’eri tè al concerto di Gerry Mulligan?”; e sentir “fabuleggiare dei fittoni, del Gigante, di Piazza Maggiore (non piazza Grande), del Pavaglione che altro che il Portico del Collegio, lungo sì e no dieci metri, mentre quel Pavaglione raggiungeva distanze difficilmente immaginabili da mente umana…” (da Cittanòva blues). E dunque, bando alle ciance: “Go east, young man!”.
Mentre gli svaghi modenesi finiscono rapidamente derubricati a “obsolete festine” e “rozzerie”, la girandola baldanzosa del fervore dei bolognesi anni Sessanta accoglie, coccola e culla il Nostro, che intanto si è iscritto all’Università alla Facoltà di Magistero, e quindi tecnicamente è uno studente.
Nel frattempo il Cantacronache di Fausto Amodei gli apre le porte del mondo della canzone popolare (e anarchica), mentre la frequentazione dei locali diviene una pratica di vita quotidiana e notturna, una palestra di socialità e di relazioni, fra letteratura e musica. Anche se, ammette Francesco nella recente autobiografia “Non so che viso avesse”, “La nostra bohéme è stata ben pasciuta, la nostra scapigliatura più letteraria che altro”. Una bohéme confortevole, canterà più tardi.
In quegli anni febbrili (dei quali dirà “ce la siamo passata bene”) Francesco, com’è noto, si esibisce nelle osterie (ne scaturirà una vera e propria leggenda, peraltro non ingiustificata…). Più che esibizioni vere e proprie, in realtà, si tratta di serate e nottate fra amici (è appena il caso di menzionare l’importanza decisiva, o meglio il culto dell’amicizia, nel pantheon gucciniano!), in cui si mescolano bevute, chiacchiere, carte, poesie, canzoni, politica e filosofia. Qui, nella formazione del futuro cantautore, si fanno strada stili e influenze che presto si sovrappongono alla musica da balera e al rock‘n‘roll, già metabolizzati in quel di Modena: la musica goliardica e il cabaret (che sfocerà in Opera Buffa), la canzone politica di ascendenza anarchica, la chanson francese di Brassens, Brel, Moustaki, Ferré, e poi la lezione di Bob Dylan.
Anni di movimento studentesco, che sta prendendo coscienza del proprio ruolo e della propria centralità sociale. In quella “Parigi in minore”, è spontaneo mettersi a fare gli intellettuali, i maledetti, gli “abbaialuna”…
Anni della magnifica invenzione dell’Osteria delle Dame, voluta da un domenicano sui generis come padre Michele Casali, fra l’altro promotore dei celebri “Martedì di San Domenico”: tipica figura di uomo di cultura e di azione, non incasellabile, già reduce da un’esperienza di impresario teatrale a Parigi, bruciato non solo dalla passione per Tommaso d’Aquino ma anche da quella per la cultura popolare e per le generazioni più giovani. “Voglio metter su un locale per i giovani – dice padre Michele a Francesco – e ho già il posto: tu ci staresti a darmi una mano a gestirlo?”. “E l’Osteria fu”.
Scriverà di questa stagione, la stagione dei “biasanot”, vent’anni dopo: “La città era meno costosa, c’erano più locali aperti la notte, più voglia anche di divertirsi e più idee che circolavano, più entusiasmo …”.
Anni, non dimentichiamolo, della passione, peraltro mai sopita, per il fumetto: dell’amicizia con Bonvi, il papà di Sturmtruppen e con Guido de Maria, vulcanico futuro ideatore di Gulp. Fumetti in TV, con il quale mette su il cabaret degli Archibusti. Di una sortita (tanto per non farsi mancar niente…) fino alle glorie televisive del Carosello, per il quale Francesco compone i testi di Salomone, pirata pacioccone…
Secondo Cittanòva blues, alle carte e alle accese partite a muscolo (= bigliardino), si alternano “alate discussioni, d’arte, filosofia, politica e varia umanità … c’era il vino e l’Osteria dei Poeti, quasi riva sinistra per nobili giovini letterati, foglietti con versi e racconti scritti a penna…”. Dove si può, senza vergogna, perdere le ore a “chiacchierare di nubi”…
Una città affollata da studenti impegnati per lo più in studi umanistici e quindi più vicini alla sua sensibilità, oltre che da ragazzi provenienti da diverse porzioni di mondo: è a Bologna, ad esempio, che Guccini s’imbatte nella chitarrista Deborah Kooperman proveniente da New York, che a sua volta gli farà conoscere Juan Carlos “Flaco” Biondini, argentino, che da allora lo accompagna fedelmente alla chitarra. È lì che Francesco comincia a scaldare il motore, appiccicandosi addosso quei temi che diverranno le riconoscibilissime costanti per i suoi dischi (allora, ancora padelloni vinilici a 33 giri!) dapprima quasi carbonari e poi sempre più diffusi e oggetto di passamano da un adolescente all’altro: lo scorrere dell’esistenza, il sentimento del tempo e il bisogno di riandare alle radici delle cose, il senso dell’essere e del non essere, i dubbi – le perplessità – le domande irrisolte, la tenerezza complice verso gli emarginati e, ovviamente, la voglia di assaggiare finalmente dov’è “il sugo del sale”.
Ma soprattutto, il coraggio di raccontare delle storie: come continuerà a fare nel corso degli anni, nelle sue canzoni, nei romanzi, nella trilogia autobiografica, nei gialli. Raccontare storie, in maniera tutta sua, nel suo insistere (come disse Montale di Gozzano) a “far cozzare l’aulico col prosaico”.
Ricorderà, anni dopo: “L’osteria, vuoi mettere? Ce n’era, allora, di osterie! In remoti vicoli e fumosi anfratti, questo sì, mi bastava cercarle. Venticinque lire un bicchiere di vino e pari grana un uovo sodo … e ci passavi le giornate, ci passavi!”. La compagnia bolognese (che annovera tra gli altri il futuro entomologo-scrittore Giorgio Celli e il poeta Adriano Spatola, componente di punta del Gruppo ’63) è costituita appunto dai classici biasanot, gente abituata a “masticare la notte”.
La fine di quest’epoca dal sapore persino epico è sancita dalla Canzone delle osterie di fuori porta, dove un autore ormai famoso trova “non più amici, ma un pubblico che ascolta le canzoni in cui credevi”, perché chi frequentava le osterie “è stanco di giocare, bere il vino e sputtanarsi”. Ed è “una morte un po’ peggiore”…
C’è un aneddoto dietro questo pezzo, narrato da Guccini in un articolo su uno dei suoi punti di riferimento, Bob Dylan:
All’osteria di Gandolfi, c’era la presenza costante del vecchio Bergamini con la sua fisarmonica, sempre intento a cantare mezzo in francese e mezzo in italiano, lui che aveva riportato dalla miniera quello strumento e la silicosi. Un giorno, quando ormai Francesco non frequentava più il locale, nel frattempo rilevato dal Moretto, nel passarlo a salutare scorge su un mobile – fra la polvere e la confusione lasciate dagli imbianchini – la famosa fisarmonica di Bergamini: “Sai, l’ha lasciata qui – gli fa il Moretto – poi è morto, e nessuno l’è venuta a riprendere”. E così, dirà lui, “fu un colpo davvero, e scrissi quella canzone Le osterie fuori porta anche per lui, per Bergamini, e non solo per quello che noi eravamo allora”.
Del resto, come sostiene l’italianista per eccellenza di questa città – il professor Ezio Raimondi, che dedicò a Guccini una lezione magistrale all’aula magna di Santa Lucia – la sua saggezza viene da lontano, dai cantastorie della vecchia Piazzola del mercato, nel cui canto si udiva forte “una sorta di etica, calata dentro formule e cadenze di straordinaria intensità, un vero spettacolo”.
In effetti diversi lavori gucciniani possono dirsi profondamente bolognesi, in toto: quelli che spiccano per bolognesità, a mio giudizio, restano Opera Buffa, Stanze di vita quotidiana e, ovviamente Via Paolo Fabbri 43.
Lavori intrisi degli umori di città, concepiti nella vita petroniana nell’arco di tre lustri (1963-1978). Nelle note di copertina de L’isola non trovata compare un’autopresentazione rivelativa: “di Modena, ma ormai bolognese convinto”.
Ma di Bologna Guccini canterà spesso, oltre a quelle canzoni sgorgate in diretta nella temperie della città adottiva: in Eskimo (“Credevo che Bologna fosse mia”), in Farewell e naturalmente nel pezzo intitolato Bologna (da Metropolis, 1981), su cui torneremo, fino alla splendida milonga di Scirocco (da Signora Bovary, 1987). In un’epoca, in ogni caso, in cui l’autore si mostra già largamente disincantato nei confronti della Cittanòva… Con il grande concerto di Piazza Maggiore del 21 giugno 1984 a fare da spartiacque, come un estremo atto d’amore di un’amante che sente di aver cominciato a perdere la fiducia dell’amato…
Ma veniamo all’idea di città in Guccini. In realtà, quello della città (piccola, grande, o media, italiana o straniera) è un contesto piuttosto abituale per la sua produzione artistica. Talvolta esplicitamente richiamata, talaltra sottesa, mi pare un omaggio inevitabile alla sua concretezza tutta padana, alla sua esibita terrestrità. E c’è, com’è noto, addirittura un album intero completamente incentrato sul motivo della città, appunto Metropolis.
Normalmente, la città è vista da lui in un’angolatura negativa, problematica: si potrebbe richiamare il titolo di un pezzo del suo amico-collega bolognese Claudio Lolli, Angoscia metropolitana, e sottolineare l’abituale autopercezione di sé come montanaro e/o campagnolo inurbato (Addio) che Francesco sforna a ogni piè sospinto (“io, la montagna nel cuore”, canta ad esempio in Piccola città).
In Macaronì, il romanzo del ’97 scritto a quattro mani con Loriano Macchiavelli, si legge che “la città è piena di sorprese se solo si riesce a guardare dietro le quinte…” : il protagonista, il maresciallo Santovito, è un terrone della provincia partenopea che dopo i primi comprensibili smarrimenti si adatta alla perfezione al nuovo ambiente, la montagna tosco-emiliana.
Ma già in Vacca di un cane (1993) Guccini manifestava le sue forti perplessità di fronte all’ipotesi di traslocare dalla montagna infantile alla vita cittadina:”Non è mica un lavoro facile, andare a stare in cità. Che senso ha, cosa vuol dire, dov’è la necessità? Lì d’atorno hai la tua vita, tutta intera, quello che ti basta, tutto il tuo bisogno senza stare a cercare inutilità più o meno vaghe, di località remote e di posti sentiti dire ma non conosciuti, e forse paurosi… che cos’è poi una cità? Più grande di qui, certo. Ma quanto? Ci si può perdere?”.
Del resto, e di regola, Francesco non ama la città, con i suoi rumori, l’alienazione che di regola assale i suoi abitanti, il predominio ormai incontrastato delle automobili (lui, com’è noto, non ha mai preso neppure la patente…), e la doppia, paradossale impossibilità: tanto di stare da soli quanto di relazionarsi con gli altri. E se il Leitmotiv di Piccola città erano gli eccessi provinciali e lo scarso appeal modenesi, quello di Metropolis, in effetti, è proprio l’angoscia metropolitana.
Qui, anche la cartolina agiografica di Bologna, della sua Bologna (quella con le tre T, ovviamente torri, tortellini e tette…), viene largamente ridimensionata nel brano omonimo, assieme ai suoi tradizionali primati di cui i suoi cittadini vanno fieri. Quella Bologna che, racconta lui, l’ha sognata, prima di arrivarci: quando a Pàvana giungevano d’estate i ragazzi bolognesi, e narravano le meraviglie del Pavaglione, della Virtus, delle strade piene di gente anche alla sera ( “e quando sono arrivato sotto le due torri, la città era proprio così…”).
Guccini ha ammesso che la sua intenzione era di proporre una canzone che la narrasse così come la vedeva e la viveva, al di là dei cliché celebrativi, mescolando amore e disamore (mai odio), omaggio e rimprovero, scherma e fioretto: e in realtà c’è riuscito, pur dichiarandosi qui modenese volgare… “Bologna è una vecchia signora dai fianchi un po’ molli/ col seno sul piano padano ed il culo sui colli./ Bologna arrogante e papale, Bologna la rossa e fetale/ Bologna la grassa e l’umana, già un poco Romagna e in odor di Toscana”. Una città a due facce, dunque, “ricca signora che fu contadina/ benessere, ville, gioielli e salami in vetrina”, che spinge l’autore a saltabeccare di continuo fra gli estremi del singhiozzo, dettato dalla commozione per un’indubbia memoria dell’appartenenza, e del rutto, emblema della volgarità che, altrettanto indubbiamente, pure vi alberga, fino all’esplicita conclusione: “Bologna è una strana signora, volgare e matrona/ Bologna bambina per bene, Bologna busona/ Bologna ombelico di tutto, mi spingi a un singhiozzo e ad un rutto/ rimorso per quel che m’hai dato, che è quasi ricordo, e in odor di passato”. Di questo pezzo ha scritto bene Edmondo Berselli, un amico che è volato via troppo presto: qui “si può riascoltare insieme il realismo emiliano di Guccini, e nello stesso tempo la trasfigurazione di questo realismo in un’immagine definitiva in un ritratto dove la raffigurazione senza concessioni edulcorate si colora di una poesia materiale, un affetto trattenuto evirato nel sarcasmo”. Alcuni anni più tardi, poi, nella conversazione con Vincenzo Cerami, il rifiuto si farà irrimediabile: “Aborro Bologna perché si sta chiusi in casa, vedo le stagioni solo attraverso un giardinetto che adesso comincia a buttare qualche foglia… Troppi motori, troppa metropoli, si perde il suo essere antica, placida, bonaria.” Invece, “Pavana è più larga…”.
Prima di chiudere, è necessario aggiungere allora qualcosa su Pàvana, minuscolo borgo di mezza montagna non distante dal bailamme termale di Porretta, descritto così, di prammatica, dal Nostro: “Piccolo paesino dell’Appennino pistoiese circondato da territorio bolognese”, “dov’è già Toscana ma la voglia di raccontare è ancora tipica dell’Emilia”. Il quale, immancabilmente, soggiunge: “Sono nato a Modena, ma Modena è un’altra cosa, non mi è mai piaciuta troppo”. Per poi planare, ci potresti scommettere, su qualcosa del tipo: “Il mio luogo della memoria è Pàvana, con cui rompo continuamente le scatole, non faccio altro che parlarne. Appena uno mi chiede: Cosa pensa della situazione politica attuale?, io rispondo: Bella domanda. Pàvana, ad esempio…”.
In un’intervista, alla domanda relativa al luogo cui si sente più legato, si rinviene una risposta lapidaria, quanto esemplare: “Sicuramente Pàvana. Perché Pàvana è Macondo”. Vale a dire quello spazio immaginario supposto in Colombia, attorno al quale Gabriel Garcia Marquez ha tessuto la tela narrativa del suo splendido Cent’anni di solitudine; Eden e caos a un tempo, omphalos cosmico e attesa sede escatologica…
Senza nostalgia, però, perché parlando dell’Albero degli zoccoli di Ermanno Olmi Guccini tiene a precisare: “La cultura contadina nel film di Olmi, peraltro magistralmente raccontata, è visitata con occhi fondamentalmente romantici, nostalgici. Io invece non ho nessuna nostalgia per quel mondo. Ne parlo perché non potrei parlare d’altro, come un segno ineludibile, ma so che era un mondo duro, difficile. Era però un mondo intero, totale. Per questo oggi,nella frammentarietà del nostro presente, ci affascina…”.
Sfidando consapevolmente il rischio della retorica, chiudo sostenendo con convinzione che la poetica di Francesco, “burattinaio di parole” che in fondo ci racconta di se stesso da mezzo secolo, forte del basso quasi continuo dell’autoironia, e gli argomenti della sua fatica artistica – come si usa dire – siano in grado di parlare ancora, e di evidenziare tratti decisivi del “ritmo dell’uomo e delle stagioni” ai giovani di oggi, quelli che (come il protagonista del film di Alain Tanner) “hanno 20 anni nel 2000” (per loro fortuna) e nel 2010!
“A volte – scrive Guccini in José Pasculli, uno dei racconti della raccolta Icaro – ci troviamo di fronte a piccoli simboli che, se decodificati, ci saprebbero dire qualcosa delle nostre esistenze, o almeno ci fornirebbero una qualunque giustificazione, ma siamo sempre troppo distratti o ignoriamo troppo per poterli svelare”.
Sì, perché c’è ancora da stupirsi, apprendendo che in questo Belpaese votato alla religione dei consumi, del particulare e della celebrazione dell’apparire ad ogni costo, i cui miti umani sono i “feroci conduttori di trasmissioni false / che hanno spesso fatto / del qualunquismo un’arte” (da Cirano), c’è ancora qualcuno che “non la sopporta la gente che non sogna”; che continua a proclamarsi “fiero del suo sognare / e di questo eterno suo incespicare” e che, anche per questo, vacca d’un cane, intendiamo tenerci stretto il più a lungo possibile. Continuando a viaggiare con lui, con Francesco Guccini, - beninteso – sempre “fra la via Emilia e il West”: e sempre pronti, ovviamente, a “masticare il mondo”… per provare a intuire almeno qualche barlume “di questa cosa che chiamiamo vita”.
Brunetto Salvarani*
* Teologo e scrittore, coautore di “Di questa cosa che chiami vita. Il mondo di Francesco Guccini”, Il Margine, Trento 2008²
venerdì 24 settembre 2010
domenica 19 settembre 2010
"Quel mio buffo montone orientale..."
Le origini afghane di quel singolare capo di vestiario:
daKAREN HOOPER
"Per le strade di Kabul, trent´anni fa, incontravi afgani di tutte le razze: caucasi, mongoli, persiani, indiani. Era una città crocevia, dove si parlava una dozzina di lingue, dove le etnie Pashtun, Tajik, Hazara, Uzbek si sposavano fra loro. Occhi verdi, neri, a mandorla, visi chiari, olivastri, mori. C´erano anche gli hippies (ricordate la moda di quegli anni? I cappotti afgani, di montone, con o senza maniche, ricamati fuori, col pelo lungo dentro) e, come a Goa, spuntavano mercatini delle pulci ad hoc, dove i ragazzi racimolavano qualche soldo vendendo quello che avevano - libri e chitarre, jeans e musicassette.
Trent´anni fa Kabul era bellissima, con le sue moschee, palazzi e giardini..."
daKAREN HOOPER
"Per le strade di Kabul, trent´anni fa, incontravi afgani di tutte le razze: caucasi, mongoli, persiani, indiani. Era una città crocevia, dove si parlava una dozzina di lingue, dove le etnie Pashtun, Tajik, Hazara, Uzbek si sposavano fra loro. Occhi verdi, neri, a mandorla, visi chiari, olivastri, mori. C´erano anche gli hippies (ricordate la moda di quegli anni? I cappotti afgani, di montone, con o senza maniche, ricamati fuori, col pelo lungo dentro) e, come a Goa, spuntavano mercatini delle pulci ad hoc, dove i ragazzi racimolavano qualche soldo vendendo quello che avevano - libri e chitarre, jeans e musicassette.
Trent´anni fa Kabul era bellissima, con le sue moschee, palazzi e giardini..."
lunedì 13 settembre 2010
Impressioni del concerto di Torino
Notizie dal concerto di Torino, grazie al nostro inviato piemontaiss Marco:
prima parte dedicata ad amici-parenti-storie vere.
"Il frate", un paesano pavanese quasi colto che viveva di lavoretti e di vino, che, con una certa previdenza lasciava fuori di casa una busta da aprire in caso di morte,
"Il pensionato" suo vicino bolognese che gli raccontò l'episodio del ferroviere della Locomotiva, "Canzone per Piero" dedicata all'amico "vilegiante" bolognese, che oramai, aggiornato il datario, conosce da 61 anni. Con la sua usata tendenza ad andare sul concreto le definisce "Canzoni di sfigati".
Dedica ad Augusto Daolio "Noi non ci saremo" ed a Fini "Canzone di notte numero 2
("quella preferita da Fini in quanto 'pecora nera'; se ci avete creduto poi ve ne conto un'altra...").
Poi spiega le "parole dure al padre" di "Amerigo", che emigrò in America perché il padre mugnaio non gli voleva far guidare il calessino.
Segue digressione sugli autogrill e i loro cessi, per introdurre "Autogrill".
Una bellissima "Bisanzio", "Su in collina" ("Oggi i politici vogliono eliminare il senso del 25 aprile... Bisogna pacificarsi... con chi, quelli? No.")
Segue una parte del concerto di canzoni amorose: "Farewell", "Inutile", "Quattro stracci", "Vorrei".
Finale con "Cyrano", "Dio è morto", "La locomotiva".
Sottolinea l'assenza del maestro Vince Tempera "E' andato ad un raduno di pompieri di Treviso, ditemi voi..."
Grazie al Guccio per il concerto e la nuova scaletta, grazie a Marco per la recensione.
prima parte dedicata ad amici-parenti-storie vere.
"Il frate", un paesano pavanese quasi colto che viveva di lavoretti e di vino, che, con una certa previdenza lasciava fuori di casa una busta da aprire in caso di morte,
"Il pensionato" suo vicino bolognese che gli raccontò l'episodio del ferroviere della Locomotiva, "Canzone per Piero" dedicata all'amico "vilegiante" bolognese, che oramai, aggiornato il datario, conosce da 61 anni. Con la sua usata tendenza ad andare sul concreto le definisce "Canzoni di sfigati".
Dedica ad Augusto Daolio "Noi non ci saremo" ed a Fini "Canzone di notte numero 2
("quella preferita da Fini in quanto 'pecora nera'; se ci avete creduto poi ve ne conto un'altra...").
Poi spiega le "parole dure al padre" di "Amerigo", che emigrò in America perché il padre mugnaio non gli voleva far guidare il calessino.
Segue digressione sugli autogrill e i loro cessi, per introdurre "Autogrill".
Una bellissima "Bisanzio", "Su in collina" ("Oggi i politici vogliono eliminare il senso del 25 aprile... Bisogna pacificarsi... con chi, quelli? No.")
Segue una parte del concerto di canzoni amorose: "Farewell", "Inutile", "Quattro stracci", "Vorrei".
Finale con "Cyrano", "Dio è morto", "La locomotiva".
Sottolinea l'assenza del maestro Vince Tempera "E' andato ad un raduno di pompieri di Treviso, ditemi voi..."
Grazie al Guccio per il concerto e la nuova scaletta, grazie a Marco per la recensione.
domenica 12 settembre 2010
Nuova scaletta dei concerti
1.Canzone per un'Amica
2.Lettera
3.Noi non ci saremo
4.Il Frate
5.Amerigo
6.Il Pensionato
7.Autogrill
8.Canzone per Piero
9.Farewell
10.Inutile
11.Quattro Stracci
12.Vorrei
13.Su in Collina
14.Bisanzio
15.Canzone dei Dodici Mesi
16.Canzone di Notte n.2
17.Eskimo
18.Cirano
19.Dio è Morto
20.La Locomotiva
2.Lettera
3.Noi non ci saremo
4.Il Frate
5.Amerigo
6.Il Pensionato
7.Autogrill
8.Canzone per Piero
9.Farewell
10.Inutile
11.Quattro Stracci
12.Vorrei
13.Su in Collina
14.Bisanzio
15.Canzone dei Dodici Mesi
16.Canzone di Notte n.2
17.Eskimo
18.Cirano
19.Dio è Morto
20.La Locomotiva
venerdì 10 settembre 2010
doppio cd in uscita il 28 settembre 2010
dal sito Emi:
IL 28 SETTEMBRE ESCE "STORIA DI ALTRE STORIE"
Tra gli anniversari eccellenti che vengono festeggiati nel 2010 c'è anche quello di uno dei cantautori più rappresentativi e amati della storia della musica Francesco Guccini.
Ed è proprio in occasione del suo 70° anniversario che viene presentata e pubblicata "Storia di Altre Storie", l'antologia in 2 CD in edizione digipack con ricco booklet a prezzo speciale nella quale prendono posto 31 brani scelti da Guccini stesso. Impreziosiscono ulteriormente la raccolta le note scritte appositamente da Riccardo Bertoncelli, lo storico critico musicale. In più nella raccolta sono comprese le versione originale dal 45 giri e mai pubblicata su CD di "Un altro giorno è andato" e il brano "Nella giungla".
IL 28 SETTEMBRE ESCE "STORIA DI ALTRE STORIE"
Tra gli anniversari eccellenti che vengono festeggiati nel 2010 c'è anche quello di uno dei cantautori più rappresentativi e amati della storia della musica Francesco Guccini.
Ed è proprio in occasione del suo 70° anniversario che viene presentata e pubblicata "Storia di Altre Storie", l'antologia in 2 CD in edizione digipack con ricco booklet a prezzo speciale nella quale prendono posto 31 brani scelti da Guccini stesso. Impreziosiscono ulteriormente la raccolta le note scritte appositamente da Riccardo Bertoncelli, lo storico critico musicale. In più nella raccolta sono comprese le versione originale dal 45 giri e mai pubblicata su CD di "Un altro giorno è andato" e il brano "Nella giungla".
domenica 5 settembre 2010
Guccini AL concerto (del Liga)
4 settembre 2010, Liga in concerto a Bologna, sugli spalti si intravedono Francesco e Raffaella (7.19).
Poi il Liga ringrazia lui e Bologna (6,53).
martedì 24 agosto 2010
martedì 17 agosto 2010
A cena con Biagi e Guccini, a Pianaccio
Enrico Franceschini, figlio di un "montanaro" di Vergato, ha partecipato a SereNere a Montecuto nelle Alpi (in realtà sta sull'Appennino) e ci racconta la cena con Guccini e Bice Biagi, una delle tre figlie di Enzo.
lunedì 9 agosto 2010
Guccini a Torri, martedi 10 agosto 2010
Guccini a Torri, nei pressi di Pavana, incontra alle 16,15 Daniele Vitali sul tema:
"Il dialetto di Torri e della Sambuca ieri e oggi".
Nel 1998 Francesco aveva pubblicato, in occasione del millennio della fondazione della ridente frazione sambucana, "Il dizionario del dialetto di Pàvana".
"Il dialetto di Torri e della Sambuca ieri e oggi".
Nel 1998 Francesco aveva pubblicato, in occasione del millennio della fondazione della ridente frazione sambucana, "Il dizionario del dialetto di Pàvana".
venerdì 6 agosto 2010
Monteacuto delle Alpi
(AGI) - Monte Acuto delle Alpi (Bologna) 5 ago.- Francesco Guccini e Cesare Cremoni, ovvero due diverse generazioni di cantautori bolognesi, a confronto. Saranno loro gli ospiti d'onore della seconda edizione di sereNERE, la rassegna di cinema noir che si terra' nella piazzetta di Monte Acuto delle Alpi (Lizzano in Belvedere) localita' dell'appennino bolognese in Provincia di Bologna, in programma il 7 e l'8 agosto. L'idea nasce dall'associazione Atlante no profit di Bologna che ha pensato di puntare su questa parte del territorio per creare una diversificazione dell'offerta turistica e soprattutto appoggiare la valorizzazione dell'appenninp attraverso iniziative culturali in grado di attirare un pubblico piu' ampio. Bice Biagi, figlia di Enzo Biagi che aveva la sua dimora di famiglia a Pianaccio, sara' la giornalista ufficiale della manifestazione. "Conosco e amo profondamente il territorio appenninico ed i suoi borghi- ha commentato Ceasare Cremonini - compreso Monte Acuto, e per me sereNERE sara' l'occasione per incontrare il grande cantautore bolognese Francesco Guccini, mio maestro di musiche e parole, e fare quattro chiacchiere in liberta' sotto il secolare acero che domina la piazzetta di Monte Acuto. E poi potro' riassaporare le famose crescentine della nonna Lella". Un susseguirsi di momenti di confronto vedranno quest'anno l'estensione del concetto noir visto anche in un'accezione diversa. L'idea del noir rimane, con l'evoluzione nella seconda giornata sul tema emigranti dell'Appennino tosco-emiliano ("Dagli Appennini alle Ande") che nel secolo scorso abbandonarono le loro case, i loro boschi ed i loro greggi, per tentare una miglior sorte in Sud-America.
Saranno le immagini, le musiche e i dibattiti che racconteranno questo nuovo spaccato di sereNERE.
Saranno le immagini, le musiche e i dibattiti che racconteranno questo nuovo spaccato di sereNERE.
giovedì 5 agosto 2010
mercoledì 4 agosto 2010
Clamorosa mutazione gucciniana!
lunedì 2 agosto 2010
lunedì 5 luglio 2010
“La và mèl e po’ la crass”
Sempre dall'amico Lauro Venturi la cronaca del backstage e del concerto di Modena.
3 ottobre Guccini ritira il Premio Chiara
Il «Premio Chiara» si sdoppia e da una sua costola nasce un nuovo premio, «Le parole della musica», sostenuto dall'etichetta «Ghost Records», che ogni anno sarà assegnato a un cantautore italiano o straniero. Il primo vincitore è Francesco Guccini, fresco settantenne, che il prossimo 3 ottobre arriverà a Varese a ritirarlo, in un pomeriggio che si annuncia epocale, organizzato in collaborazione con il Premio Tenco e a cui parteciperanno Enrico De Angelis e Antonio Silva, tra le "colonne" del Club Tenco.
http://www.ilfestivaldelracconto.it/premiochiara/Edizione_2010.asp
http://www.ilfestivaldelracconto.it/premiochiara/Edizione_2010.asp
giovedì 1 luglio 2010
Bastardo posto
http://www.ilpost.it/stefanomenichini/2010/07/01/bastardo-posto/
È stata una bella festa. Un buon concerto. Una serata speciale per un sacco di gente (per esempio per mio figlio, dodici anni e il suo primo concerto live). E naturalmente, nonostante l’allergia del festeggiato agli eventi, è stato un evento.
Poteva essere addirittura un grande evento, se Francesco Guccini avesse accolto la disponibilità di amici come Ligabue e Vinicio Capossela a suonare con lui mercoledì 30 sera in Piazza Grande a Modena, nel concerto che allo stesso tempo celebrava i suoi settant’anni e il ritorno nella città d’origine (ok, sappiamo tutto, lui in realtà è di Pavana, dunque collina, e con la pianura ha avuto sempre una relazione contrastata, con Modena poi non ne parliamo, piccola città bastardo posto eccetera).
Invece Guccini non ha voluto i big con sé a festeggiarlo. Lui è fatto così, del resto non fosse stato per l’ostinazione di Roberto Alperoli, assessore modenese alla cultura, il concerto dei settant’anni non l’avrebbe fatto proprio, e dunque che Ligabue e Capossela siano rimasti sotto al palco (e poi per la cena infinita del dopo) rimane un dettaglio. La dimensione celebrativa è rimasta ai margini per volontà del celebrato. Volevano venire anche Zucchero, Stefano Benni e tutto lo star system all’emiliana, ma poi tante date non coincidevano e soprattutto lui non era affatto ansioso. A parte i citati, più Carlin Petrini, Enzo Iacchetti e qualcun altro, il resto dei presenti era il popolo gucciniano.
Seimila persone in piedi nella piazza, caldo umido che solo in Emilia, età media ovviamente alta con la consueta compiaciuta sorpresa di quanti giovani, ragazzi e ragazzini si presentino sempre a sentire il poeta delle osterie (“veramente mai stato un grande esperto di osterie”, dice lui per vezzo), conoscendo ogni parola di ogni canzone a parte quelle più ignote e recenti che Guccini piazza implacabile in una scaletta che non ammette deroghe né concessioni.
In effetti, almeno nel cuore di Modena “Piccola città” avrebbe potuto farla, ma da decenni non entra più nei concerti (“e poi a Flaco non piace”), dunque niente. Si erano rassegnati dalla vigilia quelli del Comune, che dalle finestre del loro palazzo hanno allora appeso volentieri un altro striscione di saluto con citazione annessa: “Però non la sopporto la gente che non sogna. Modena ringrazia Francesco”. In effetti, sai che imbarazzo dover appendere “Piccola città, bastardo posto”…
Lasciato il Liga a sudare sotto al palco, il regalo del festeggiato ai modenesi è stato in stile con la mania autobiografica dell’ultimo Guccini (ma in realtà anche del primo, del secondo, del terzo…): la chiamata sul palco di un antico rocker locale, Franco Fini, già immortalato sulle pagine dell’autobiografia gucciniana come l’unico della zona capace di eseguire alla perfezione l’assolo di Be-pop-a-lula. E questo abbiamo avuto: l’assolo del vecchio rocker innamorato dell’America, cinquant’anni dopo.
Per i seimila è stata una bellissima serata. Abbiamo avuto la conferma di una voce e di un’energia mai diminuite (mio figlio di questo era sbalordito: davvero ha settant’anni?), abbiamo sentito qualche vaga battuta su Berlusconi e sulle leggi bavaglio ma soprattutto la selezione del repertorio che aspettavamo: da Canzone per un’amica alla obbligatoria Locomotiva finale, passando per Auschwitz, Dio è morto, Cyrano, Incontro, Farewell, Canzone quasi d’amore, Don Chisciotte, le Osterie fuori porta e l’Eskimo innocente, senza Che Guevara ma con due ormai non-più-così-inediti. Cioè Il testamento del pagliaccio, ironia sull’Italia berlusconica, e Su in collina, un pezzo del 2007 sulla lotta partigiana.
In Piazza Grande la canzone sui partigiani non la conoscono, dunque non si alza alcun pugno chiuso. Ce ne saranno in abbondanza alla fine, quando quel famoso ferroviere cercherà di recapitare la giustizia proletaria ai passeggeri di un Frecciarossa ante litteram. E quando un ragazzino dodicenne vedrà allibito, per la prima e credo unica volta, il suo cinquantenne padre salutare come un perfetto comunista.
È stata una bella festa. Un buon concerto. Una serata speciale per un sacco di gente (per esempio per mio figlio, dodici anni e il suo primo concerto live). E naturalmente, nonostante l’allergia del festeggiato agli eventi, è stato un evento.
Poteva essere addirittura un grande evento, se Francesco Guccini avesse accolto la disponibilità di amici come Ligabue e Vinicio Capossela a suonare con lui mercoledì 30 sera in Piazza Grande a Modena, nel concerto che allo stesso tempo celebrava i suoi settant’anni e il ritorno nella città d’origine (ok, sappiamo tutto, lui in realtà è di Pavana, dunque collina, e con la pianura ha avuto sempre una relazione contrastata, con Modena poi non ne parliamo, piccola città bastardo posto eccetera).
Invece Guccini non ha voluto i big con sé a festeggiarlo. Lui è fatto così, del resto non fosse stato per l’ostinazione di Roberto Alperoli, assessore modenese alla cultura, il concerto dei settant’anni non l’avrebbe fatto proprio, e dunque che Ligabue e Capossela siano rimasti sotto al palco (e poi per la cena infinita del dopo) rimane un dettaglio. La dimensione celebrativa è rimasta ai margini per volontà del celebrato. Volevano venire anche Zucchero, Stefano Benni e tutto lo star system all’emiliana, ma poi tante date non coincidevano e soprattutto lui non era affatto ansioso. A parte i citati, più Carlin Petrini, Enzo Iacchetti e qualcun altro, il resto dei presenti era il popolo gucciniano.
Seimila persone in piedi nella piazza, caldo umido che solo in Emilia, età media ovviamente alta con la consueta compiaciuta sorpresa di quanti giovani, ragazzi e ragazzini si presentino sempre a sentire il poeta delle osterie (“veramente mai stato un grande esperto di osterie”, dice lui per vezzo), conoscendo ogni parola di ogni canzone a parte quelle più ignote e recenti che Guccini piazza implacabile in una scaletta che non ammette deroghe né concessioni.
In effetti, almeno nel cuore di Modena “Piccola città” avrebbe potuto farla, ma da decenni non entra più nei concerti (“e poi a Flaco non piace”), dunque niente. Si erano rassegnati dalla vigilia quelli del Comune, che dalle finestre del loro palazzo hanno allora appeso volentieri un altro striscione di saluto con citazione annessa: “Però non la sopporto la gente che non sogna. Modena ringrazia Francesco”. In effetti, sai che imbarazzo dover appendere “Piccola città, bastardo posto”…
Lasciato il Liga a sudare sotto al palco, il regalo del festeggiato ai modenesi è stato in stile con la mania autobiografica dell’ultimo Guccini (ma in realtà anche del primo, del secondo, del terzo…): la chiamata sul palco di un antico rocker locale, Franco Fini, già immortalato sulle pagine dell’autobiografia gucciniana come l’unico della zona capace di eseguire alla perfezione l’assolo di Be-pop-a-lula. E questo abbiamo avuto: l’assolo del vecchio rocker innamorato dell’America, cinquant’anni dopo.
Per i seimila è stata una bellissima serata. Abbiamo avuto la conferma di una voce e di un’energia mai diminuite (mio figlio di questo era sbalordito: davvero ha settant’anni?), abbiamo sentito qualche vaga battuta su Berlusconi e sulle leggi bavaglio ma soprattutto la selezione del repertorio che aspettavamo: da Canzone per un’amica alla obbligatoria Locomotiva finale, passando per Auschwitz, Dio è morto, Cyrano, Incontro, Farewell, Canzone quasi d’amore, Don Chisciotte, le Osterie fuori porta e l’Eskimo innocente, senza Che Guevara ma con due ormai non-più-così-inediti. Cioè Il testamento del pagliaccio, ironia sull’Italia berlusconica, e Su in collina, un pezzo del 2007 sulla lotta partigiana.
In Piazza Grande la canzone sui partigiani non la conoscono, dunque non si alza alcun pugno chiuso. Ce ne saranno in abbondanza alla fine, quando quel famoso ferroviere cercherà di recapitare la giustizia proletaria ai passeggeri di un Frecciarossa ante litteram. E quando un ragazzino dodicenne vedrà allibito, per la prima e credo unica volta, il suo cinquantenne padre salutare come un perfetto comunista.
il mio amico Wiligelmo
Modena, 1° luglio 2010. Il resto del carlino
UNA PIAZZA Grande stracolma di gente, ben oltre il numero dei posti a sedere, ha accolto Francesco Guccini per il suo attesissimo concerto, la prima volta per lui in piazza, che voleva essere anche un regalo per i suoi 70 anni compiuti il 14 giugno. Anche se lui ha cercato in tutti i modi di schermirsi. «Vi hanno ingannato, questo è un concerto come tutti gli altri — ha detto — e io sono il solito cialtronaccio. I miei musicisti non si reggono in piedi...».
Poi Guccini ha osservato la piazza che lo circondava. Dalle finestre del Municipio pendeva un grande striscione che riportava un verso della sua Cirano: ‘Però non la sopporto la gente che non sogna. Modena ringrazia Francesco’. Poi il cantautore ha notato una sorta di coreografia. «Palloncini? Ma si’ maat», ha scherzato in dialetto.
Subito dopo, uno sguardo al Duomo: «E’ bellissimo — ha detto Guccini — anche se non l’ho fatto io, Ma la mia età è quella, Wiligelmo era mio amico». E ancora, l’artista ha fissato lo sguardo su un punto lontano: «In quell’angolo là una volta c’erano i contrabbandieri».
UNA PIAZZA Grande stracolma di gente, ben oltre il numero dei posti a sedere, ha accolto Francesco Guccini per il suo attesissimo concerto, la prima volta per lui in piazza, che voleva essere anche un regalo per i suoi 70 anni compiuti il 14 giugno. Anche se lui ha cercato in tutti i modi di schermirsi. «Vi hanno ingannato, questo è un concerto come tutti gli altri — ha detto — e io sono il solito cialtronaccio. I miei musicisti non si reggono in piedi...».
Poi Guccini ha osservato la piazza che lo circondava. Dalle finestre del Municipio pendeva un grande striscione che riportava un verso della sua Cirano: ‘Però non la sopporto la gente che non sogna. Modena ringrazia Francesco’. Poi il cantautore ha notato una sorta di coreografia. «Palloncini? Ma si’ maat», ha scherzato in dialetto.
Subito dopo, uno sguardo al Duomo: «E’ bellissimo — ha detto Guccini — anche se non l’ho fatto io, Ma la mia età è quella, Wiligelmo era mio amico». E ancora, l’artista ha fissato lo sguardo su un punto lontano: «In quell’angolo là una volta c’erano i contrabbandieri».
Bastardo post.
Canzoni, applausi e commozione in piazza.
Pace fatta con Modena, "piccola città bastardo posto"
FRANCO GIUBILEI per La Stampa 1 luglio 2010
MODENA
Avrà pure compiuto settant’anni da pochi giorni, sarà anche nella sua città natale per la prima volta dopo decenni (tanto che l’ultimo concerto modenese viene fatto risalire agli Anni Settanta, forse ce n’è stato un altro a metà Novanta: segno che il vecchio astio cantato in Piccola città non si è mai placato?) ma per Francesco Guccini questo è uno show come tutti gli altri, nonostante piazza Grande sia stipata all’inverosimile e il parterre sia pieno di ospiti di riguardo, da Luciano Ligabue a Carlin Petrini a Enzo Iacchetti. Erano annunciati anche Vinicio Capossela e Zucchero ma all’inizio del concerto non sono venuti a rendere omaggio al maestro come gli altri, fra un bicchiere di vino rosso e un tocco di parmigiano reggiano.
Guccini si confessa prima del concerto, rispondendo a precisa domanda: «Non sono per niente emozionato, è un concerto come tutti gli altri e non è neanche il primo che faccio a Modena, queste sono le leggende dei media, ne ho fatti almeno altri quattro». Poi lo ripete anche davanti a seimila persone: «In questa piazza che ho percorso in lungo e in largo tanti anni fa. Io temo che siate stati igannati dai media, questo è un normale concerto, non è un avvenimento, e gli anni li ho compiuti il 14 giugno, quando li compie anche Bonolis: e lo so, non si può aver tutto dalla vita». Scherza sulla sua età, che accomuna a quella della Ghirlandina, il campanile del Duomo romanico, «questo simbolo fallico...». E siccome le prime file non vogliono saperne di sedersi e il resto del pubblico seduto rumoreggia, lui incoraggia a modo suo gli irriducibili sotto il palco: «Così si resiste alla folla! Lo sta facendo anche Brancher, lo faranno ministro ai piccioni viaggiatori». E attacca la musica, la sua musica per cui si sono mossi a migliaia e in tanti sono rimasti fuori dalla piazza, perché i biglietti sono andati tutti esauriti, volati via in pochi giorni: un brano vecchio quasi quanto lui, Canzone per un’amica, in morte di S.F., con quel vocione profondo inconfondibile e l’erre moscia a grattare «lunga e diritta correva la strada...».
Dice che non è un evento e probabilmente lo pensa davvero, perché l’uomo è autenticamente schivo e diceva sul serio quando ripeteva che nei settant’anni appena compiuti non c’è proprio niente da festeggiare, eppure il grande concerto è nell’aria, è nell’attesa dei suoi fedelissimi, un pubblico così trasversale che più trasversale non si può per età – dai venti ai sessanta, a occhio e croce, cioè nonni, babbi e figli – ma motivatissimo nella passione.
Arriva Osterie di fuori porta, tutta impregnata dei sapori del periodo bolognese e il pensiero va a un’altra canzone storica che è la sua dedica velenosa e spietata alla Modena da cui fuggì per cercare rifugio e fortuna a Bologna, cioè la «piccola città bastardo posto».
La farà, non la farà? I suoi amici storici, fra cui il poeta Alberto Bertoni, gliel’hanno chiesta in modo pressante, al punto da promettere un coretto sotto il palco se Guccini avesse fatto resistenza. Al che si vocifera che lui avrebbe minacciato di eseguire Bologna, che nella città confinante risuonerebbe una specie di oltraggio, considerate le antiche rivalità di campanile. Ma in realtà non c’è spazio per polemiche e metaforici calci negli stinchi e il concerto fila via liscio fra applausi e acclamazioni, perché se la leggenda vuole che Guccini malsopporti la città che gli ha dato i natali, Modena stavolta è tutto ai suoi piedi. E Francesco ricambia a modo suo, chiudendo come sempre fa, con La locomotiva.
Pace fatta con Modena, "piccola città bastardo posto"
FRANCO GIUBILEI per La Stampa 1 luglio 2010
MODENA
Avrà pure compiuto settant’anni da pochi giorni, sarà anche nella sua città natale per la prima volta dopo decenni (tanto che l’ultimo concerto modenese viene fatto risalire agli Anni Settanta, forse ce n’è stato un altro a metà Novanta: segno che il vecchio astio cantato in Piccola città non si è mai placato?) ma per Francesco Guccini questo è uno show come tutti gli altri, nonostante piazza Grande sia stipata all’inverosimile e il parterre sia pieno di ospiti di riguardo, da Luciano Ligabue a Carlin Petrini a Enzo Iacchetti. Erano annunciati anche Vinicio Capossela e Zucchero ma all’inizio del concerto non sono venuti a rendere omaggio al maestro come gli altri, fra un bicchiere di vino rosso e un tocco di parmigiano reggiano.
Guccini si confessa prima del concerto, rispondendo a precisa domanda: «Non sono per niente emozionato, è un concerto come tutti gli altri e non è neanche il primo che faccio a Modena, queste sono le leggende dei media, ne ho fatti almeno altri quattro». Poi lo ripete anche davanti a seimila persone: «In questa piazza che ho percorso in lungo e in largo tanti anni fa. Io temo che siate stati igannati dai media, questo è un normale concerto, non è un avvenimento, e gli anni li ho compiuti il 14 giugno, quando li compie anche Bonolis: e lo so, non si può aver tutto dalla vita». Scherza sulla sua età, che accomuna a quella della Ghirlandina, il campanile del Duomo romanico, «questo simbolo fallico...». E siccome le prime file non vogliono saperne di sedersi e il resto del pubblico seduto rumoreggia, lui incoraggia a modo suo gli irriducibili sotto il palco: «Così si resiste alla folla! Lo sta facendo anche Brancher, lo faranno ministro ai piccioni viaggiatori». E attacca la musica, la sua musica per cui si sono mossi a migliaia e in tanti sono rimasti fuori dalla piazza, perché i biglietti sono andati tutti esauriti, volati via in pochi giorni: un brano vecchio quasi quanto lui, Canzone per un’amica, in morte di S.F., con quel vocione profondo inconfondibile e l’erre moscia a grattare «lunga e diritta correva la strada...».
Dice che non è un evento e probabilmente lo pensa davvero, perché l’uomo è autenticamente schivo e diceva sul serio quando ripeteva che nei settant’anni appena compiuti non c’è proprio niente da festeggiare, eppure il grande concerto è nell’aria, è nell’attesa dei suoi fedelissimi, un pubblico così trasversale che più trasversale non si può per età – dai venti ai sessanta, a occhio e croce, cioè nonni, babbi e figli – ma motivatissimo nella passione.
Arriva Osterie di fuori porta, tutta impregnata dei sapori del periodo bolognese e il pensiero va a un’altra canzone storica che è la sua dedica velenosa e spietata alla Modena da cui fuggì per cercare rifugio e fortuna a Bologna, cioè la «piccola città bastardo posto».
La farà, non la farà? I suoi amici storici, fra cui il poeta Alberto Bertoni, gliel’hanno chiesta in modo pressante, al punto da promettere un coretto sotto il palco se Guccini avesse fatto resistenza. Al che si vocifera che lui avrebbe minacciato di eseguire Bologna, che nella città confinante risuonerebbe una specie di oltraggio, considerate le antiche rivalità di campanile. Ma in realtà non c’è spazio per polemiche e metaforici calci negli stinchi e il concerto fila via liscio fra applausi e acclamazioni, perché se la leggenda vuole che Guccini malsopporti la città che gli ha dato i natali, Modena stavolta è tutto ai suoi piedi. E Francesco ricambia a modo suo, chiudendo come sempre fa, con La locomotiva.
mercoledì 30 giugno 2010
domenica 27 giugno 2010
Mai prima di mezzogiorno!
Mi raccomando, se andate a trovarlo evitate le prime ore del mattino. La sua ospitalità è proverbiale ma....Ricordate anche che il Bonvi gli fece dono di un fucile della prima guerra mondiale, che il Guc detiene legittimamente in quanto ufficiale di complemento in congedo, e che periodicamente lubrifica!
sabato 26 giugno 2010
Tarallucci e Guccini
www.sansalvatoretelesino.com
Dopo la performance de I' Polli di Allevamento' che hanno proposto il teatro canzone di Giorgio Gaber, la Pro Loco di San Salvatore, domenica 27, all’Abbazia del Santo Salvatore sarà protagonista di una dedica a Francesco Guccini.
Nel corso della serata sarà presentato il volume di Rolando Giannetti edito da Guida: “In In cerca d’un porto: la canzone d’autore di Francesco Guccini”.
A tracciare il profilo artistico e umano del cantautore bolognese, insieme all’autore, ci saranno il giornalista Donato Zoppo e il professore Tonino Conte. Non mancherà l’omaggio musicale che è stato curato da Enzo Astarita e Ornella Cascinelli che hanno riarrangiato alcune canzoni come “La locomotiva” e “Canzone per un’amica”. La serata sarà accompagnata da “Mulsum et Crustulum”: vino e struppoli, come si faceva nell’antica Roma.
Dopo la performance de I' Polli di Allevamento' che hanno proposto il teatro canzone di Giorgio Gaber, la Pro Loco di San Salvatore, domenica 27, all’Abbazia del Santo Salvatore sarà protagonista di una dedica a Francesco Guccini.
Nel corso della serata sarà presentato il volume di Rolando Giannetti edito da Guida: “In In cerca d’un porto: la canzone d’autore di Francesco Guccini”.
A tracciare il profilo artistico e umano del cantautore bolognese, insieme all’autore, ci saranno il giornalista Donato Zoppo e il professore Tonino Conte. Non mancherà l’omaggio musicale che è stato curato da Enzo Astarita e Ornella Cascinelli che hanno riarrangiato alcune canzoni come “La locomotiva” e “Canzone per un’amica”. La serata sarà accompagnata da “Mulsum et Crustulum”: vino e struppoli, come si faceva nell’antica Roma.
Tutto esaurito!
Ha fatto registrare un clamoroso sold-out il concerto che Francesco Guccini ha programmato per il prossimo 30 giugno: la serata, organizzata dal Comune, celebrerà i 70 anni del cantautore emiliano. Come riferisce l'agenzia ANSA, richieste di biglietti sarebbero arrivate da tutta Italia. L'artista, scherzando su tanto successo, ha dichiarato: "Il 30 giugno? Potrebbe piovere, o potrei non esserci e inviare un video messaggio. E comunque non sarà il concerto del mio compleanno. I 70 li ho già compiuti".
venerdì 25 giugno 2010
Guccini a Spilamberto
Un amico di vecchia data di FG, Lauro Venturi, racconta:
Un Guccini in grandissima forma parla per un’ora e mezza nella bella cornice della rocca di Spilamberto.
L’occasione è la presentazione del libro “Non so che viso avesse”, con l’ormai simbiotico Alberto Bertoni, anche lui in grande forma.
C’era anche una bella luna, non piena del tutto, come faceva notare il Maestro un po’ commuovendosi e un po’ ricordando “Guarda che luna, guarda che mare…” per sottolineare l’importanza, nella sua formazione, delle balere, nelle quali ha suonato all’inizio. Geniale poi il passaggio dalle balere a canzoni come Auschwitz.
Un Guccini con voglia di parlare, che si commuove, sempre con il riserbo che contraddistingue quelli come lui, si intende, pensando a sua madre (ha letto alla fine le due pagine proprio a lei dedicate) e a Renzo Fantini, consigliere ed amico.
Un bel inserto su come vengono scelte le scalette per i concerti, su come sarà quella del prossimo autunno, con il sicuro rientro di “Canzone dei 12 mesi” e forse de “Il pensionato” e “Il frate”: “Cosa volete mai, La locomotiva e Canzone per un’amica ci vogliono, così come Il vecchio e il bambino, Auschwitz e Dio è morto, poi non ne restano mica tante”.
Esilaranti i ricordi dell’esame alla Siae, la cui domanda era stata fatta da un suo amico (Guido De Maria, scommetterei): iscritto come melodista non trascrittore, perché non scriveva musica.
Si è parlato dei dialetti, dell’infanzia a Pàvana con il babbo ritornato dal campo di concentramento quando Guccini aveva circa cinque anni: “Quando sono nato lui non c’era, ma mia mamma per fortuna sì”. Rispunta anche la pigrizia nello scrivere canzoni: "Ne ho tre, l'ultima però non la faccio perchè poi finisce subito su You Tube": se sapesse che "Il Pagliaccio" e "Su in collina" le ho messe io per primo, appena venuto a casa dal concerto di Porretta...
Tutte le cose dette questa sera le avevo già sentite e lette diverse volte, ma c’era un timbro particolare che ha reso tutto gradevole ed emozionante.
E adesso il concerto del 30, a Modena, voluto dal mio amico Assessore Roberto Alperoli, sul quale Guccini ha ironizzato definendolo un concerto come gli altri. Ha fatto battute sul back stage che sarà di oltre cento persone, ha ironizzato sulle condizioni poste dalle grandi star agli organizzatori, mentre lui si fa preparare il catering da un genovese (Michele), quasi un ossimoro.
A Modena, ci saranno grandi sorprese!
Un Guccini in grandissima forma parla per un’ora e mezza nella bella cornice della rocca di Spilamberto.
L’occasione è la presentazione del libro “Non so che viso avesse”, con l’ormai simbiotico Alberto Bertoni, anche lui in grande forma.
C’era anche una bella luna, non piena del tutto, come faceva notare il Maestro un po’ commuovendosi e un po’ ricordando “Guarda che luna, guarda che mare…” per sottolineare l’importanza, nella sua formazione, delle balere, nelle quali ha suonato all’inizio. Geniale poi il passaggio dalle balere a canzoni come Auschwitz.
Un Guccini con voglia di parlare, che si commuove, sempre con il riserbo che contraddistingue quelli come lui, si intende, pensando a sua madre (ha letto alla fine le due pagine proprio a lei dedicate) e a Renzo Fantini, consigliere ed amico.
Un bel inserto su come vengono scelte le scalette per i concerti, su come sarà quella del prossimo autunno, con il sicuro rientro di “Canzone dei 12 mesi” e forse de “Il pensionato” e “Il frate”: “Cosa volete mai, La locomotiva e Canzone per un’amica ci vogliono, così come Il vecchio e il bambino, Auschwitz e Dio è morto, poi non ne restano mica tante”.
Esilaranti i ricordi dell’esame alla Siae, la cui domanda era stata fatta da un suo amico (Guido De Maria, scommetterei): iscritto come melodista non trascrittore, perché non scriveva musica.
Si è parlato dei dialetti, dell’infanzia a Pàvana con il babbo ritornato dal campo di concentramento quando Guccini aveva circa cinque anni: “Quando sono nato lui non c’era, ma mia mamma per fortuna sì”. Rispunta anche la pigrizia nello scrivere canzoni: "Ne ho tre, l'ultima però non la faccio perchè poi finisce subito su You Tube": se sapesse che "Il Pagliaccio" e "Su in collina" le ho messe io per primo, appena venuto a casa dal concerto di Porretta...
Tutte le cose dette questa sera le avevo già sentite e lette diverse volte, ma c’era un timbro particolare che ha reso tutto gradevole ed emozionante.
E adesso il concerto del 30, a Modena, voluto dal mio amico Assessore Roberto Alperoli, sul quale Guccini ha ironizzato definendolo un concerto come gli altri. Ha fatto battute sul back stage che sarà di oltre cento persone, ha ironizzato sulle condizioni poste dalle grandi star agli organizzatori, mentre lui si fa preparare il catering da un genovese (Michele), quasi un ossimoro.
A Modena, ci saranno grandi sorprese!
giovedì 24 giugno 2010
Michele Serra: Guccini è una roccia!
Guccini il cantastorie
di Michele Serra
L'Espresso
Un grande poeta. Un innovatore attaccato alla tradizione. Idolo di diverse generazioni. Ritratto dell'artista modenese
(14 giugno 2010)
Quando saranno finalmente stabiliti i doverosi nessi tra letteratura e canzone, Francesco Guccini sarà tra i tre o quattro classici da studiare. I cantautori, di fronte a questo genere di discorsi, in genere si ritraggono, non si sa se per imbarazzo o perché gelosi di una forma espressiva effettivamente non comparabile con altre, non solo parola né solo musica. Ma in molti casi è il corpus della loro opera a inchiodarli: raccolti su carta, i versi di Guccini reggerebbero la dura prova della lettura "nuda" anche senza il formidabile supporto degli accordi, della ritmica e della melodia. Magari non un Meridiano (non ancora) ma un robusto cofanetto gucciniano, nello scaffale della poesia italiana del secondo Novecento, occuperebbe il suo legittimo spazio.
Guccini, del resto, era di quelli che sui banchi di scuola, quando scoprivamo i cantautori, giravano anche trascritti su foglietti volanti (come De André, come Dylan, come Brassens tradotto), e il disco a 33 giri era il coronamento di un approccio tecnicamente letterario: il testo della "Locomotiva", pazientemente ricopiato in stampatello nonostante la lunghezza fluviale (Guccini è il contrario di un epigrammista), lo lessi in terza liceo prima di sentire la canzone in casa di un amico anarchico estasiato, che maneggiava il vinile di "Radici" come si fa con i testi sacri.
Guccini è prima di tutto parola, parola pronunciata con quella involontaria solennità che gli deriva dalla voce tonante, dalla erre arrotata. La voce di un narratore fieramente premoderno, antiermetico, che non esita a prendersi il tempo per i dettagli, gli aggettivi, gli incisi. La fretta non appartiene all'uomo, che è un montanaro degli Appennini pieno di cura per la conversazione, il vino, il convivio, la lettura e la scrittura, né all'artista, che costruisce le sue storie come se il ritmo della televisione non lo tangesse.
Questa orgogliosa "antichità" della sua arte è un lussuoso paradosso: nei primi anni Sessanta, quelli del beat e della "canzone di protesta", il ragazzo Guccini fu tra i veri innovatori della scena italiana. Nei suoi primi pezzi c'erano Salinger e Kerouac, la bomba atomica, l'irruzione deflagrante dei temi sociali. Fu autore scelto dei primi "capelloni", più americano che francese, e in quegli anni più avanti di parecchio rispetto a grandi classici della canzone italiana moderna come Paoli, Bindi, Tenco. È il solo, tra i grandi cantautori italiani, a venire dal beat, a formarsi, tra Modena e Bologna, negli anni così cari a Edmondo Berselli, quelli di una rivoluzione dei costumi e degli spiriti non ancora imbragata nell'ideologia.
Da lì, Guccini si defila e si concentra sulla propria poetica, che è soprattutto narrativa. Storie di amori, di ubriachi, di antenati, di miti popolari, ricognizioni nella storia sociale e nella geografia, luoghi della memoria, l'intimismo dei cantautori che si fa da parte per raccontare soprattutto gli altri. La definizione di "cantastorie", che in genere si spende un po' a caso per parecchi dei nostri cantautori, nel suo caso è più calzante che in altri. E il fascino unico della sua narrativa in versi e musica sta in un anacronismo quasi inspiegabile, e potentissimo: Guccini scrive e canta come se il turbine dell'epoca, la petulanza delle mode, nemmeno lo sfiorasse. Proverbiale, e amatissimo dai fan, il manifesto pluridecennale che lo accompagna quando fa i concerti (pochi, lui è pigro e memorabile fu la sua risposta all'invito di una trasmissione televisiva: "non posso, sto finendo un puzzle"). Lui con la barba nera, sgranato, potrebbe essere l'immagine di un brigante appenninico o di un hippy, di un fuori-corso sessantottino o di un monaco ortodosso, è comunque un marchio di immutabilità che indica il miracolo (perdurante, e ormai più che quarantennale) di un artista anziano che raduna sotto il palco una manciata di generazioni, compresi i giovanissimi che cantano a memoria canzoni scritte quando nascevano i loro padri: come se da ragazzini noi avessimo cantato Rabagliati o Perry Como o i Cetra.
Come capita solo ai classici, questa apparente immobilità è vincente. Sbuca dalle macerie di ogni moda morente, di ogni tendenza dimenticata, con la forza di un solido, di una costruzione paziente e non deperibile. Guccini è una roccia. In un paese fragile, emotivo, suggestionabile, Guccini è un padre vero. Gli amici lo chiamano "il Maestrone": mai soprannome fu più calzante, anche nell'affettuosa derisione di un uomo grande e grosso che è anche un grande, magistrale artista.
di Michele Serra
L'Espresso
Un grande poeta. Un innovatore attaccato alla tradizione. Idolo di diverse generazioni. Ritratto dell'artista modenese
(14 giugno 2010)
Quando saranno finalmente stabiliti i doverosi nessi tra letteratura e canzone, Francesco Guccini sarà tra i tre o quattro classici da studiare. I cantautori, di fronte a questo genere di discorsi, in genere si ritraggono, non si sa se per imbarazzo o perché gelosi di una forma espressiva effettivamente non comparabile con altre, non solo parola né solo musica. Ma in molti casi è il corpus della loro opera a inchiodarli: raccolti su carta, i versi di Guccini reggerebbero la dura prova della lettura "nuda" anche senza il formidabile supporto degli accordi, della ritmica e della melodia. Magari non un Meridiano (non ancora) ma un robusto cofanetto gucciniano, nello scaffale della poesia italiana del secondo Novecento, occuperebbe il suo legittimo spazio.
Guccini, del resto, era di quelli che sui banchi di scuola, quando scoprivamo i cantautori, giravano anche trascritti su foglietti volanti (come De André, come Dylan, come Brassens tradotto), e il disco a 33 giri era il coronamento di un approccio tecnicamente letterario: il testo della "Locomotiva", pazientemente ricopiato in stampatello nonostante la lunghezza fluviale (Guccini è il contrario di un epigrammista), lo lessi in terza liceo prima di sentire la canzone in casa di un amico anarchico estasiato, che maneggiava il vinile di "Radici" come si fa con i testi sacri.
Guccini è prima di tutto parola, parola pronunciata con quella involontaria solennità che gli deriva dalla voce tonante, dalla erre arrotata. La voce di un narratore fieramente premoderno, antiermetico, che non esita a prendersi il tempo per i dettagli, gli aggettivi, gli incisi. La fretta non appartiene all'uomo, che è un montanaro degli Appennini pieno di cura per la conversazione, il vino, il convivio, la lettura e la scrittura, né all'artista, che costruisce le sue storie come se il ritmo della televisione non lo tangesse.
Questa orgogliosa "antichità" della sua arte è un lussuoso paradosso: nei primi anni Sessanta, quelli del beat e della "canzone di protesta", il ragazzo Guccini fu tra i veri innovatori della scena italiana. Nei suoi primi pezzi c'erano Salinger e Kerouac, la bomba atomica, l'irruzione deflagrante dei temi sociali. Fu autore scelto dei primi "capelloni", più americano che francese, e in quegli anni più avanti di parecchio rispetto a grandi classici della canzone italiana moderna come Paoli, Bindi, Tenco. È il solo, tra i grandi cantautori italiani, a venire dal beat, a formarsi, tra Modena e Bologna, negli anni così cari a Edmondo Berselli, quelli di una rivoluzione dei costumi e degli spiriti non ancora imbragata nell'ideologia.
Da lì, Guccini si defila e si concentra sulla propria poetica, che è soprattutto narrativa. Storie di amori, di ubriachi, di antenati, di miti popolari, ricognizioni nella storia sociale e nella geografia, luoghi della memoria, l'intimismo dei cantautori che si fa da parte per raccontare soprattutto gli altri. La definizione di "cantastorie", che in genere si spende un po' a caso per parecchi dei nostri cantautori, nel suo caso è più calzante che in altri. E il fascino unico della sua narrativa in versi e musica sta in un anacronismo quasi inspiegabile, e potentissimo: Guccini scrive e canta come se il turbine dell'epoca, la petulanza delle mode, nemmeno lo sfiorasse. Proverbiale, e amatissimo dai fan, il manifesto pluridecennale che lo accompagna quando fa i concerti (pochi, lui è pigro e memorabile fu la sua risposta all'invito di una trasmissione televisiva: "non posso, sto finendo un puzzle"). Lui con la barba nera, sgranato, potrebbe essere l'immagine di un brigante appenninico o di un hippy, di un fuori-corso sessantottino o di un monaco ortodosso, è comunque un marchio di immutabilità che indica il miracolo (perdurante, e ormai più che quarantennale) di un artista anziano che raduna sotto il palco una manciata di generazioni, compresi i giovanissimi che cantano a memoria canzoni scritte quando nascevano i loro padri: come se da ragazzini noi avessimo cantato Rabagliati o Perry Como o i Cetra.
Come capita solo ai classici, questa apparente immobilità è vincente. Sbuca dalle macerie di ogni moda morente, di ogni tendenza dimenticata, con la forza di un solido, di una costruzione paziente e non deperibile. Guccini è una roccia. In un paese fragile, emotivo, suggestionabile, Guccini è un padre vero. Gli amici lo chiamano "il Maestrone": mai soprannome fu più calzante, anche nell'affettuosa derisione di un uomo grande e grosso che è anche un grande, magistrale artista.
Marco Gherardini,, detto Poiana
di Claudio Cumani Il Carlino
PAVANA (Pistoia), 12 giugno 2010 - IL MAESTRONE sospira: «Tutta questa frenesia per i miei 70 anni mi dà ansia, mi vergogno. Vorrei starmene in disparte, far finta di niente». In vista della data fatidica (lunedì 14 giugno), a Francesco Guccini stanno arrivando da giorni telefonate, biglietti, messaggi di auguri. Ma lui si schermisce: «No, il giorno del mio compleanno non faccio proprio nulla. Sto qui, a Pavana, spero in santa pace. Ho scoperto che alcuni amici mi volevano fare un’improvvisata, ma sono riuscito ad annullare tutto».
In realtà c’è un concerto a fine mese nella piazza Grande della sua Modena annunciato come festa di compleanno. «Ma non è vero — ribatte un po’ stizzito— E’ una esibizione come tutte le altre e soprattutto non è, come qualcuno va raccontando in giro, il mio ultimo concerto. Ci mancherebbe... Lo dico perché magari quella sera il pubblico si aspetta chissà cosa». E tanto per essere più chiaro snocciola le date della prossima tournée autunnale (con scaletta rinnovata): l’11 settembre Torino, il 6 novembre Roma, il 26 novembre Pistoia, il 10 dicembre Milano. Intanto Francesco lassù in montagna («sì, ho la macchina ma non la patente, guida la mia compagna») passa le giornate come il protagonista di una novella cechoviana: «In questo periodo non ho voglia di far niente, trascorro il tempo per lo più leggendo. In estate è un peccato lavorare».
Ma la noia è bandita: «La mattina c’è da andare al lago di Suviana, dove ho la canoa, a prendere il sole. Nel pomeriggio ci si riposa e la sera arriva sempre qualche amico per cenare. E poi ho tante altre cose da fare, anche se non sono un gran contadino: devo guardare l’orto e curare le piante attorno a casa. Peccato che non sia più il camminatore di un tempo».
La città non le manca?
«No, Bologna è cambiata e le compagnie si sono frantumate. In fondo la vita qui a Pavana non mi sembra diversa da quella della mia infanzia, anche se allora non c’erano riscaldamento e acqua corrente. L’unica cosa che devo avere vicino è una libreria».
Da accanito lettore su cosa si è soffermato recentemente?
«Sugli ultimi gialli italiani di Camilleri e Carofiglio. Ho molta curiosità verso il genere: la mia attenzione per questa letteratura è aumentata da quando ho scoperto che un tempo gli scrittori italiani camuffavano il nome con pseudonimi stranieri per farsi pubblicare»
Anche lei sta scrivendo un giallo con Loriano Macchiavelli?
«Sì, ma le cose vanno a rilento perché abbiamo avuto qualche difficoltà. Immagino che il libro uscirà il prossimo anno. C’è un nuovo personaggio, un ispettore forestale giovane, sfrontato e guascone a cui ho dato il nome di un amico del paese, Marco Gherardini detto Poiana. E’ una storia contemporanea che si svolge in montagna. Con Loriano lavoriamo come sempre: ognuno di noi scrive un capitolo che ci scambiamo».
E il tanto sospirato nuovo disco come va?
«Anche lì non ho fatto grandi progressi: ho tre canzoni pronte e due le faccio in concerto. Una si intitola ‘Su in collina’ ed è la versione italiana di una poesia bolognese di Gastone Vandelli, nell’altra, ‘Il testamento del pagliaccio’, si parla di un uomo sconfitto da tutte le cose da cui metaforicamente veniamo uccisi tutti noi in questo Paese. Ma in realtà, se avessi pezzi nuovi, non li farei dal vivo per non finire subito su Internet».
Settant’anni sono ovviamente occasione di bilanci. C’è stato un periodo più importante di altri nella sua vita?
«No, è venuto tutto in maniera naturale e senza forzature. Mi sono trovato a fare un mestiere che non mi sono cercato e che non immaginavo di fare quando ho iniziato a collaborare con l’Equipe 84 e i Nomadi o quando cantavo fra gli studenti all’osteria delle Dame a Bologna. Nella mia vita non ci sono state svolte o cambiamenti epocali».
Il più grande dolore?
«La scomparsa recente di Renzo Fantini che non era solo il mio manager ma un vero amico. La sua morte è stata così rapida che mi ha lasciato senza fiato. Ci conoscevamo dal ’74 e di strada insieme ne abbiamo fatta molta».
Che effetto fa essere nato lo stesso giorno di Che Guevara?
«L’ho scoperto da poco. L’anno scorso in questo periodo ero a cena sul Monte Amiata quando per scherzo ho fatto un brindisi ‘a una persona nata il 14 giugno che il mondo non dimenticherà mai’. Tutti mi hanno guardato stupiti, pensando che parlassi di me. ‘A Che Guevara’, ho urlato alzando il bicchiere»
Un’ultima cosa: Guccini, in confidenza, lei guarda la televisione?
«Sì, i notiziari, i film, l’attualità... Ho anche la parabola che però non si attacca alla mia vecchia tv. Beh, insomma, dico la verità: sono mesi che devo comprare una nuova televisione ma proprio non mi decido a farlo».
PAVANA (Pistoia), 12 giugno 2010 - IL MAESTRONE sospira: «Tutta questa frenesia per i miei 70 anni mi dà ansia, mi vergogno. Vorrei starmene in disparte, far finta di niente». In vista della data fatidica (lunedì 14 giugno), a Francesco Guccini stanno arrivando da giorni telefonate, biglietti, messaggi di auguri. Ma lui si schermisce: «No, il giorno del mio compleanno non faccio proprio nulla. Sto qui, a Pavana, spero in santa pace. Ho scoperto che alcuni amici mi volevano fare un’improvvisata, ma sono riuscito ad annullare tutto».
In realtà c’è un concerto a fine mese nella piazza Grande della sua Modena annunciato come festa di compleanno. «Ma non è vero — ribatte un po’ stizzito— E’ una esibizione come tutte le altre e soprattutto non è, come qualcuno va raccontando in giro, il mio ultimo concerto. Ci mancherebbe... Lo dico perché magari quella sera il pubblico si aspetta chissà cosa». E tanto per essere più chiaro snocciola le date della prossima tournée autunnale (con scaletta rinnovata): l’11 settembre Torino, il 6 novembre Roma, il 26 novembre Pistoia, il 10 dicembre Milano. Intanto Francesco lassù in montagna («sì, ho la macchina ma non la patente, guida la mia compagna») passa le giornate come il protagonista di una novella cechoviana: «In questo periodo non ho voglia di far niente, trascorro il tempo per lo più leggendo. In estate è un peccato lavorare».
Ma la noia è bandita: «La mattina c’è da andare al lago di Suviana, dove ho la canoa, a prendere il sole. Nel pomeriggio ci si riposa e la sera arriva sempre qualche amico per cenare. E poi ho tante altre cose da fare, anche se non sono un gran contadino: devo guardare l’orto e curare le piante attorno a casa. Peccato che non sia più il camminatore di un tempo».
La città non le manca?
«No, Bologna è cambiata e le compagnie si sono frantumate. In fondo la vita qui a Pavana non mi sembra diversa da quella della mia infanzia, anche se allora non c’erano riscaldamento e acqua corrente. L’unica cosa che devo avere vicino è una libreria».
Da accanito lettore su cosa si è soffermato recentemente?
«Sugli ultimi gialli italiani di Camilleri e Carofiglio. Ho molta curiosità verso il genere: la mia attenzione per questa letteratura è aumentata da quando ho scoperto che un tempo gli scrittori italiani camuffavano il nome con pseudonimi stranieri per farsi pubblicare»
Anche lei sta scrivendo un giallo con Loriano Macchiavelli?
«Sì, ma le cose vanno a rilento perché abbiamo avuto qualche difficoltà. Immagino che il libro uscirà il prossimo anno. C’è un nuovo personaggio, un ispettore forestale giovane, sfrontato e guascone a cui ho dato il nome di un amico del paese, Marco Gherardini detto Poiana. E’ una storia contemporanea che si svolge in montagna. Con Loriano lavoriamo come sempre: ognuno di noi scrive un capitolo che ci scambiamo».
E il tanto sospirato nuovo disco come va?
«Anche lì non ho fatto grandi progressi: ho tre canzoni pronte e due le faccio in concerto. Una si intitola ‘Su in collina’ ed è la versione italiana di una poesia bolognese di Gastone Vandelli, nell’altra, ‘Il testamento del pagliaccio’, si parla di un uomo sconfitto da tutte le cose da cui metaforicamente veniamo uccisi tutti noi in questo Paese. Ma in realtà, se avessi pezzi nuovi, non li farei dal vivo per non finire subito su Internet».
Settant’anni sono ovviamente occasione di bilanci. C’è stato un periodo più importante di altri nella sua vita?
«No, è venuto tutto in maniera naturale e senza forzature. Mi sono trovato a fare un mestiere che non mi sono cercato e che non immaginavo di fare quando ho iniziato a collaborare con l’Equipe 84 e i Nomadi o quando cantavo fra gli studenti all’osteria delle Dame a Bologna. Nella mia vita non ci sono state svolte o cambiamenti epocali».
Il più grande dolore?
«La scomparsa recente di Renzo Fantini che non era solo il mio manager ma un vero amico. La sua morte è stata così rapida che mi ha lasciato senza fiato. Ci conoscevamo dal ’74 e di strada insieme ne abbiamo fatta molta».
Che effetto fa essere nato lo stesso giorno di Che Guevara?
«L’ho scoperto da poco. L’anno scorso in questo periodo ero a cena sul Monte Amiata quando per scherzo ho fatto un brindisi ‘a una persona nata il 14 giugno che il mondo non dimenticherà mai’. Tutti mi hanno guardato stupiti, pensando che parlassi di me. ‘A Che Guevara’, ho urlato alzando il bicchiere»
Un’ultima cosa: Guccini, in confidenza, lei guarda la televisione?
«Sì, i notiziari, i film, l’attualità... Ho anche la parabola che però non si attacca alla mia vecchia tv. Beh, insomma, dico la verità: sono mesi che devo comprare una nuova televisione ma proprio non mi decido a farlo».
lunedì 14 giugno 2010
14 giugno 2010
Parafrasando la pubblicità del pennello cinghiale: "Non occorre un grande regalo per il compleanno del grande Maestro". Nella foto: 1998 Guccini apre il regalo degli amici "Cazzari" de Roma. Il "grande regalo", una volta scartato, si palesa come "il viagra dei poveri", una banalissima bottiglia di Vov.
domenica 13 giugno 2010
"Quel millantatore di Vince Tempera..."
Intervista letteraria del febbraio 2009. Si passa da Spoon River
al clima gelido di Pàvana, dall'idealismo di Michele Serra all'effigie in pietra
sul caminetto. E si sottolinea che il maestro Tempera si perde spesso nel suo telefonino.
al clima gelido di Pàvana, dall'idealismo di Michele Serra all'effigie in pietra
sul caminetto. E si sottolinea che il maestro Tempera si perde spesso nel suo telefonino.
martedì 8 giugno 2010
Col suo buffo montone orientale
Guarda con quali mezzi (che neanche i Kiss!) si muoveva per concerti Guccini negli anni settanta!.
Con Repubblica e Espresso
9 cd e 1 dvd, ogni settimana insieme a Repubblica e Espresso, tutte le canzoni di Guccini in cofanetto, con testi e anedottica.
Gino Castaldo intervista Guccini a Pàvana.
I settant'anni di Guccini
"E pensare che non volevo scrivere"
Incontro con il cantautore che il prossimo 14 giugno festeggia il compleanno. "Già a 50 anni mi resi conto che mi restava da vivere meno di quanto avevo vissuto"
dal nostro inviato GINO CASTALDO
I settant'anni di Guccini "E pensare che non volevo scrivere" Francesco Guccini
PAVANA - Arrivare a Pavana, la leggendaria, il luogo prescelto da Francesco Guccini per il suo buen retiro, da almeno dieci anni, è come attraversare una selva di profili scoscesi e strade morbidamente tortuose. Da lì, Guccini torreggia, settant'anni portati con orgoglio da montanaro. "Ma attenzione, non li ho mica ancora compiuti" borbotta col suo burbero sorriso, "manca ancora qualche giorno al 14 giugno". Nell'ingresso della casa un grande tavolo contiene di tutto, vecchi fumetti, fogli sparsi, libri, riviste. Dalla cucina, di sapore antico, si vede una verdissima valle che degrada con dolcezza: "In fondo questa è la vera differenza tra me e la maggior parte degli altri cantautori" spiega, "De André, che era mio coetaneo, veniva dalla buona borghesia genovese, gli altri comunque da un ambiente cittadino, urbano, io vengo da qui, dalla campagna, dalla montagna".
A proposito di De André. Eravate legati?
"Sì, avevamo anche progettato di fare qualcosa insieme, magari un tour, lui voleva, anche se un po' si scherniva, diceva: ma no tu parli tanto nei concerti, io per niente, ma l'avremmo fatto, avevamo voglia. Poi i manager che per natura sono sempre più sospettosi, si misero di traverso. Io Fabrizio l'avevo conosciuto, a Bologna, nel 1967, avevamo amici comuni, mi ricordo che io gli cantai Per quando è tardi. Lui invece un po' si vergognava, poi cantò molto. Da allora ci siamo sempre sentiti, da qualche parte ho mille lire con la sua firma perché ho vinto una partita di scopa testa a testa. Lui era più legato ai francesi, a Brassens, io più a Dylan. Il primo disco, Freewheelin, me lo passò uno dell'Equipe 84, ma io all'inizio non ero così interessato a scrivere, non ero neanche iscritto alla Siae. Il primo disco non lo firmai neanche, i pezzi erano firmati "Pontiak-Verona", Auschwitz era firmata "Lunero-Vandelli", ma erano tutte mie. Poi le abbiamo corrette, ma non tanto tempo fa".
I settant'anni arrivano come una campana dolente. Ci si sente più soli, nel senso che molti amici non ci sono più?
"Per forza. Da poco è scomparso Renzo Fantini, mio grande amico, è stato da sempre il mio manager, era carismatico, e poi era onesto, in un ambiente che diciamo pure non brilla per questa qualità. Lui fu folgorato come Saulo sulla via di Damasco. All'epoca lavorava con Nilla Pizzi, Sandro Giacobbe, e per caso Victor Sogliani, dell'Equipe 84, era il 1975, mi disse 'ma tu ce l'hai un manager?'. Io no, non ce l'avevo, ma non facevo concerti. Venne Renzo con Bibi Ballandi, da lì decise di lavorare solo con i cantautori, si separò da Ballandi, e così cominciò la storia. E comunque già a cinquant'anni mi resi conto tragicamente che gli anni che mi restavano da vivere erano meno di quelli avevo già vissuto, figurarsi ora. Ma non ci penso tanto, solo quando sento dei limiti. L'altro giorno sono andato al mulino, era la casa dei miei nonni dove abitavo da piccolo, c'è una mulattiera che scende giù, guardavo i sassi, attento a non inciampare. C'è il fiume, una volta lo passavo saltando di sasso in sasso, ora certo no. C'è anche il lago, d'estate si stava là, lo attraversavo tutto e tornavo indietro, ora faccio sì e no cinque metri, ma ancora mi tuffo, anche se l'acqua è gelida. Però notavo una cosa, da giovane facevo i concerti seduto, ora li faccio in piedi, sono proprio un coglione..."
E perché da seduto, un tempo?
"Perché ero abituato a non fare concerti veri e propri, ho cominciato a suonare in pubblico all'osteria delle Dame, quindi stavo seduto, poi arrivò Flaco, eravamo solo in due, e stavamo seduti".
Vecchioni ha scritto che la sostanza delle sue canzoni è il dubbio.
"Non sempre, ma è vero che nelle mie canzoni ci sono molte domande, ma non in tutte, vedi La locomotiva. Poi sì, in canzoni come Il pensionato, e Shomér Ma Mi Lailah, un inno al dubbio. Di certo ora so solo che non sono più giovane. Ho delle canzoni nuove, una è l'ennesima Canzone di notte, la numero 4, credo, e lì un po' parlo dell'età. L'anno scorso feci un concerto a Montalcino, il 13 giugno, la sera dopo festeggiammo, presi la parola per un brindisi, dissi: 'A una persona nata il 14 giugno che nessuno dimenticherà...'. Tutti pensavano che parlassi di me, e invece conclusi: 'a Che Guevara, che è nato il mio stesso giorno'".
Dopo 45 anni è cambiata la sua visione della musica?
"No, io la vedo ancora così la canzone: un signore che si mette lì, ha delle idee per la testa e vuole manifestarle. Poi per carità ci sono prodotti artigianali ottimi, ma io parlo delle canzoni dei cantautori. Oggi sento molte canzoni, non dico brutte, ma inutili, che forse è peggio. Tempo fa dissi dei talent che in mancanza di altro poteva essere un'occasione per emergere, e tutti a dire: 'ecco Guccini apprezza questi programmi'. Mica vero, le case discografiche sono in crisi, ma pensa che io il primo disco Folk beat n.1, l'ho fatto nel 1966, ma il primo di un certo successo è stato Radici del 1972 e in mezzo ci sono stati altri tre long playing. Ora sembra essere tornati agli anni Cinquanta, c'erano belle voci, ma i testi a volte erano ridicoli, ora c'è più abilità, arrivano più preparati, ma non c'è niente dentro. Paoli anche quando cantava Il cielo in una stanza si sentiva che c'era qualcosa dietro, anche se era una canzone d'amore, De Andrè fece delle altre cose, ironiche, serie, io cantavo Auschwitz....
Ricorda quando l'ha incisa?
"Certo. C'erano ancora i tecnici col camice bianco, venne fuori questo signore anziano, o almeno mi sembrava allora, avrà avuto neanche 50 anni, mi disse: 'senta ma è lei che ha fatto questa canzone? Bene le do un consiglio, se vuole continuare a fare questo mestiere, allora cambi genere che con questa roba andrà poco lontano'".
(07 giugno 2010)
"E pensare che non volevo scrivere"
Incontro con il cantautore che il prossimo 14 giugno festeggia il compleanno. "Già a 50 anni mi resi conto che mi restava da vivere meno di quanto avevo vissuto"
dal nostro inviato GINO CASTALDO
I settant'anni di Guccini "E pensare che non volevo scrivere" Francesco Guccini
PAVANA - Arrivare a Pavana, la leggendaria, il luogo prescelto da Francesco Guccini per il suo buen retiro, da almeno dieci anni, è come attraversare una selva di profili scoscesi e strade morbidamente tortuose. Da lì, Guccini torreggia, settant'anni portati con orgoglio da montanaro. "Ma attenzione, non li ho mica ancora compiuti" borbotta col suo burbero sorriso, "manca ancora qualche giorno al 14 giugno". Nell'ingresso della casa un grande tavolo contiene di tutto, vecchi fumetti, fogli sparsi, libri, riviste. Dalla cucina, di sapore antico, si vede una verdissima valle che degrada con dolcezza: "In fondo questa è la vera differenza tra me e la maggior parte degli altri cantautori" spiega, "De André, che era mio coetaneo, veniva dalla buona borghesia genovese, gli altri comunque da un ambiente cittadino, urbano, io vengo da qui, dalla campagna, dalla montagna".
A proposito di De André. Eravate legati?
"Sì, avevamo anche progettato di fare qualcosa insieme, magari un tour, lui voleva, anche se un po' si scherniva, diceva: ma no tu parli tanto nei concerti, io per niente, ma l'avremmo fatto, avevamo voglia. Poi i manager che per natura sono sempre più sospettosi, si misero di traverso. Io Fabrizio l'avevo conosciuto, a Bologna, nel 1967, avevamo amici comuni, mi ricordo che io gli cantai Per quando è tardi. Lui invece un po' si vergognava, poi cantò molto. Da allora ci siamo sempre sentiti, da qualche parte ho mille lire con la sua firma perché ho vinto una partita di scopa testa a testa. Lui era più legato ai francesi, a Brassens, io più a Dylan. Il primo disco, Freewheelin, me lo passò uno dell'Equipe 84, ma io all'inizio non ero così interessato a scrivere, non ero neanche iscritto alla Siae. Il primo disco non lo firmai neanche, i pezzi erano firmati "Pontiak-Verona", Auschwitz era firmata "Lunero-Vandelli", ma erano tutte mie. Poi le abbiamo corrette, ma non tanto tempo fa".
I settant'anni arrivano come una campana dolente. Ci si sente più soli, nel senso che molti amici non ci sono più?
"Per forza. Da poco è scomparso Renzo Fantini, mio grande amico, è stato da sempre il mio manager, era carismatico, e poi era onesto, in un ambiente che diciamo pure non brilla per questa qualità. Lui fu folgorato come Saulo sulla via di Damasco. All'epoca lavorava con Nilla Pizzi, Sandro Giacobbe, e per caso Victor Sogliani, dell'Equipe 84, era il 1975, mi disse 'ma tu ce l'hai un manager?'. Io no, non ce l'avevo, ma non facevo concerti. Venne Renzo con Bibi Ballandi, da lì decise di lavorare solo con i cantautori, si separò da Ballandi, e così cominciò la storia. E comunque già a cinquant'anni mi resi conto tragicamente che gli anni che mi restavano da vivere erano meno di quelli avevo già vissuto, figurarsi ora. Ma non ci penso tanto, solo quando sento dei limiti. L'altro giorno sono andato al mulino, era la casa dei miei nonni dove abitavo da piccolo, c'è una mulattiera che scende giù, guardavo i sassi, attento a non inciampare. C'è il fiume, una volta lo passavo saltando di sasso in sasso, ora certo no. C'è anche il lago, d'estate si stava là, lo attraversavo tutto e tornavo indietro, ora faccio sì e no cinque metri, ma ancora mi tuffo, anche se l'acqua è gelida. Però notavo una cosa, da giovane facevo i concerti seduto, ora li faccio in piedi, sono proprio un coglione..."
E perché da seduto, un tempo?
"Perché ero abituato a non fare concerti veri e propri, ho cominciato a suonare in pubblico all'osteria delle Dame, quindi stavo seduto, poi arrivò Flaco, eravamo solo in due, e stavamo seduti".
Vecchioni ha scritto che la sostanza delle sue canzoni è il dubbio.
"Non sempre, ma è vero che nelle mie canzoni ci sono molte domande, ma non in tutte, vedi La locomotiva. Poi sì, in canzoni come Il pensionato, e Shomér Ma Mi Lailah, un inno al dubbio. Di certo ora so solo che non sono più giovane. Ho delle canzoni nuove, una è l'ennesima Canzone di notte, la numero 4, credo, e lì un po' parlo dell'età. L'anno scorso feci un concerto a Montalcino, il 13 giugno, la sera dopo festeggiammo, presi la parola per un brindisi, dissi: 'A una persona nata il 14 giugno che nessuno dimenticherà...'. Tutti pensavano che parlassi di me, e invece conclusi: 'a Che Guevara, che è nato il mio stesso giorno'".
Dopo 45 anni è cambiata la sua visione della musica?
"No, io la vedo ancora così la canzone: un signore che si mette lì, ha delle idee per la testa e vuole manifestarle. Poi per carità ci sono prodotti artigianali ottimi, ma io parlo delle canzoni dei cantautori. Oggi sento molte canzoni, non dico brutte, ma inutili, che forse è peggio. Tempo fa dissi dei talent che in mancanza di altro poteva essere un'occasione per emergere, e tutti a dire: 'ecco Guccini apprezza questi programmi'. Mica vero, le case discografiche sono in crisi, ma pensa che io il primo disco Folk beat n.1, l'ho fatto nel 1966, ma il primo di un certo successo è stato Radici del 1972 e in mezzo ci sono stati altri tre long playing. Ora sembra essere tornati agli anni Cinquanta, c'erano belle voci, ma i testi a volte erano ridicoli, ora c'è più abilità, arrivano più preparati, ma non c'è niente dentro. Paoli anche quando cantava Il cielo in una stanza si sentiva che c'era qualcosa dietro, anche se era una canzone d'amore, De Andrè fece delle altre cose, ironiche, serie, io cantavo Auschwitz....
Ricorda quando l'ha incisa?
"Certo. C'erano ancora i tecnici col camice bianco, venne fuori questo signore anziano, o almeno mi sembrava allora, avrà avuto neanche 50 anni, mi disse: 'senta ma è lei che ha fatto questa canzone? Bene le do un consiglio, se vuole continuare a fare questo mestiere, allora cambi genere che con questa roba andrà poco lontano'".
(07 giugno 2010)
sabato 29 maggio 2010
venerdì 28 maggio 2010
A Modena, adelante, ma con juicio.
Francesco Guccini festeggera' i suoi 70 anni (il 14 giugno) con due concerti il 18 giugno a Rende (Cosenza) e il 30 giugno a Modena. 'Non e' bello festeggiare un compleanno, almeno non a questa eta'', commenta il cantautore. A Rende arriveranno tutti i fan del sud che si stanno radunando anche via internet. A Modena la festa avra' il carattere dell'ufficialita': 'Farmi la festa in piazza Grande - dice Guccini - e' stata l'idea di un assessore. Per me sarebbe una data come le altre'.
venerdì 21 maggio 2010
Guccini a Torri il 10 agosto 2010
Ligabue di nuovo a Pavana
Dopo la storica foto scattata ai tempi di RadioFreccia al bar pavanese dove il Guccio sorbisce il suo consueto caffè mattutino (vabbe, diciamo a mezzodì)
grandiosa intervista oggi sul Venerdi di Repubblica.
Davanti al tavolo della cucina di Francesco Ligabue parla con Michele Smargiassi di vecchie e nuove Avvelenate. Buttando le basi per un nuovo duetto.
sabato 15 maggio 2010
venerdì 14 maggio 2010
mercoledì 12 maggio 2010
domenica 9 maggio 2010
7 maggio - Sestri Levante
Grazie a Damiano ecco le foto dell'incontro di Sestri, dove Francesco ha presentato il suo libro "Non so che viso avesse". Al termine dell'incontro è stata promossa la campagna "L'acqua non si vende" di cui FG si farà testimone, e per questo gli è stata regalata una maglietta con il logo della campagna, anche se lui ha fatto notare che la taglia era giusta per il suo fisico degli anni sessanta. A suggellare l'incontro gli è stata anche regalata una speciale bottiglia di birra con l'etichetta dedicata (ne sono state imbottigliate 600).
domenica 2 maggio 2010
17 maggio Guccini chiude la Fiera del Libro
Incontro con Francesco Guccini e GAbriele Ferraris
"Non so che occhi avesse" - Grandi ospiti Presentazione libro
17.05.2010 20.00 h
Sala Gialla
a cura di Mondadori
Biglietto Green Poin
Sala Gialla
"Non so che occhi avesse" - Grandi ospiti Presentazione libro
17.05.2010 20.00 h
Sala Gialla
a cura di Mondadori
Biglietto Green Poin
Sala Gialla
sabato 1 maggio 2010
7 maggio a Sestri
Francesco Guccini ha scelto Sestri Levante per presentare venerdì 7 maggio, ore 21, al Cinema Teatro Ariston, «Non so che viso avesse. La storia della mia vita». Autobiografia d'artista, che sul palco vuole raccontarsi senza chitarra. «Magari gliela allunghiamo a sorpresa» butta lì Marco Larteri di Momenti Eventi, che con Comune e Ipercoop i Leudi di Carasco ha promosso l'attesissimo evento. «Guccini torna a Sestri - ricorda l'assessore Valentina Ghio - dopo la sua fiaba scritta per l'Andersen. E torna a scopo benefico, perché l'ingresso sarà ad offerta libera, che ci auguriamo sia congrua, a favore dei Centri di ascolto Caritas». In linea col personaggio, a cuore aperto, pungolato dal «re del gossip» Vittorio Sirianni e dal critico musicale Riccardo Storti. Una cavalcata in «erre», cui Larteri&Co lavorano da anni: «Non è stato facile - conferma Marco - e ci siamo riusciti grazie alla mediazione di Luca Gotelli, suo grande amico». Che, giù la serranda del suo bar «Galleria Spagnoli», continua a mettere Guccini. Prima il nastro inciso, poi la voglia di conoscerlo: «L'ho incontrato al suo paese, era nell'orto che piantava i pomodori. Ci ha aperto la sua casa». È il quotidiano straordinario in musica e libri. Che Guccini rimbalza a Sestri: 360 gli ingressi disponibili di cui metà reperibili da martedì, ore 16, all'Ipercoop di Carasco: «Insieme al biglietto sarà possibile acquistare il libro da far autografare» ricorda il responsabile Andrea Coriandolo.
martedì 27 aprile 2010
"Caro il mio Francesco" 11 maggio Liga scrive al Guc
Il Liga si scaglia contro l'ipocrisia di una parte dell'ambiente musicale, tirando fuori il 'mostro' della sua insofferenza verso la "spocchia, lo snobismo e l'incoerenza" di alcuni colleghi e addetti ai lavori. Lo fa in 'Caro il mio Francesco', una lettera-canzone scritta in una notte insonne all'amico Francesco Guccini. Il quale, come racconta il rocker ai giornalisti invitati a Correggio per ascoltare in anteprima il cd, "quando l'ha ascoltata ha commentato 'Liga, eri un po' incazzato!'". In effetti è uno sfogo duro: "Bravi artisti, furbacchioni e topi", recita il testo, "il topo canta solo di quanto lui sia puro / e poi dà via la madre per stare sul giornale/ ed è talmente puro che ti lancia merda soltanto per un titolo più largo". Ce l'ha anche contro chi "senza neanche far finire un ritornello va su Internet a scrivere 'la verita''". Inutile insistere: il Liga non fa nomi. Preferisce affidare la risposta al testo: "Il mio disprezzo me lo tengo dentro , il letamaio è colmo già pubblicamente". E poi , "ma quei presunti puri mi possono baciare queste chiappe allegramente". "Fare nomi significa avere titoli sui giornali - spiega il rocker - questi giochini li lascio fare ad altri. I topi sono quelli che si dichiarano puri ma in realtà per avere un minimo spazio infangano gli altri".
Si limita a citare due 'non-topi': Guccini e De Gregori e osserva. "Non sono il depositario della purezza, ma non ho mai dichiarato di esserlo. Chi ostenta coerenza, lo voglio coerente". Con la maturità, dice, "raccontarsi diventa sempre più il nocciolo del mio mestiere, anche rischiando di essere vulnerabile".
E sorprende chi lo conosce da anni rivelando un segreto molto privato: "Quello di 'Caro il mio Francesco' non é un attacco, ma uno sfogo. Ero molto sensibile, io e la mia compagna abbiamo perso un bambino al sesto mese di gravidanza nel novembre 2008.
Edmondo Berselli su Guccini
«Guccini si è inventato un’altra vita oltre a quella del cantante. Guccini, oltre a essere diventato un maestro dei cantautori, ha costruito altre vite, per se stesso e per gli altri. Per tutti quelli che gli vogliono bene, l’autobiografia sarà un’occasione per conoscerlo ancora meglio: per una conversazione più intima, per una confessione in più».
Quando declamava Dickens la notte di Natale
- Claudio Salvaneschi - Gazzetta di Modena - 27 marzo 2010
«Io racconto questo posto, Pàvana, come era negli anni ’40- ’50, ed era un mondo appartato, rimasto indietro, dove io facevo le mie prime scoperte dentro quella civiltà contadina ancora ben viva e che poi è scomparsa. E lì c’è il mio imprinting, quello sono stato e sono, lì c’è il senso di tutto. Anche dopo averla lasciata con la famiglia, ogni estate ci tornavo negli anni ’60 e ’70. Nel 1970, quando ci sono tornato ad abitare d’estate, stavo lavorando al disco “Radici” e per curiosità ho iniziato a fare anche ricerche storiche sulla mia famiglia». E lì è spuntato il suo primo avo conosciuto, quel Guccino da Montagu del ’500, mugnaio, da cui vengono i Guccini... «Sì, e nel libro racconto di come questi Guccini fossero attaccabrighe e in fiera inimicizia con gli avi di Enzo Biagi, di Pianaccio, con faide anche sanguinose, oltretutto». Da Pàvana a Modena, e per un paio d’anni si è anche ritrovato a fare il giornalista alla “Gazzetta di Modena”, che allora si chiamava “Gazzetta dell’Emilia”. «Ho degli ottimi ricordi della mia esperienza in Gazzetta. Si lavorava molto e nel libro cito anche il primo pezzo che mi diedero da scrivere, i 50 anni di vocazione di una suora, tale Eustachio Maria Peloso... La vita di redazione era divertente, attraverso i telefoni interni ci facevamo anche degli scherzi terribili. Uno telefonava al cronista di nera dando notizia di un omicidio atroce e vedevamo quello balzare subito come una molla per precipitarsi dai carabinieri». Ormai Guccini era già sulla via Emilia... «Sì, ho già capito, tra la via Emilia e il West, vero? Questa è un’espressione da “Piccola città” che ha avuto una certa fortuna, ma io allora intendevo davvero che la dimensione avventurosa della nostra vita iniziava lì, a poche centinaia di metri da casa. Io abitavo in via Cucchiari, dove finiva la strada, poi la via Emilia si allungava in mezzo alla campagna e a noi sembrava avesse un orizzonte sterminato, c’era tutto lo spazio per l’immaginario...» L’immaginario erano i libri e la musica. «Sì, erano i libri, la musica, l’America... Venendo da una cultura popolare, la musica era importante. Non c’era la Tv, le radio erano poche e chi faceva musica rallegrava, gli altri andavano a cercarlo, diventavi un’attrazione e questo mi piaceva». E poi c’era Modena... «Ricordo la noia mortale della Modena di allora, anni ’50 e ’60. Non era molto diversa da oggi, direi. Anche allora la sera era deserta. Cambiava un po’ d’estate, e noi giovani andavamo al parco. Tenga conto che allora i rapporti con le ragazze erano scarsi e ci davamo da fare inventandoci delle cose, c’erano tante idee prese dai film che vedevamo. Un Natale, poi, siamo andati in giro per la città declamando Dickens e ce ne hanno dette di tutti i colori». Nel libro ci sono tanti episodi per capire come cambiano i tempi, come quando racconta dell’amico del cugino di Carpi, un anarchico diventato poi leghista. «A parecchi è successo, anarchici o, soprattutto, comunisti diventati leghisti. Si vede che c’era già il seme dentro...» Qual è l’Italia che vede ora? «L’impressione non è sicuramente buona. Nel dopoguerra c’era molta speranza, i genitori si sacrificavano perchè i figli avessero una vita migliore di quella che avevano avuto loro. Adesso, invece, i genitori devono tirare la cinghia semplicemente per mantenerli, questi figli, che non trovano lavoro o restano precari tutta la vita. Non c’è più fiducia, speranza. Io mi ricordo quanto si ballava nel dopoguerra.... Era un sintomo di ottimismo, di voglia di fare. Oggi non la vedo, più questa voglia». C’è una sua canzone, Cirano, più che mai attuale, con quell’invettiva “venite tutti avanti, politici rampanti, venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false...”. «Beh, “Cirano” la si può prendere e adattare un po’ a tutti i tempi. Certo, ora è più che mai calzante. E non è un buon segno».
«Io racconto questo posto, Pàvana, come era negli anni ’40- ’50, ed era un mondo appartato, rimasto indietro, dove io facevo le mie prime scoperte dentro quella civiltà contadina ancora ben viva e che poi è scomparsa. E lì c’è il mio imprinting, quello sono stato e sono, lì c’è il senso di tutto. Anche dopo averla lasciata con la famiglia, ogni estate ci tornavo negli anni ’60 e ’70. Nel 1970, quando ci sono tornato ad abitare d’estate, stavo lavorando al disco “Radici” e per curiosità ho iniziato a fare anche ricerche storiche sulla mia famiglia». E lì è spuntato il suo primo avo conosciuto, quel Guccino da Montagu del ’500, mugnaio, da cui vengono i Guccini... «Sì, e nel libro racconto di come questi Guccini fossero attaccabrighe e in fiera inimicizia con gli avi di Enzo Biagi, di Pianaccio, con faide anche sanguinose, oltretutto». Da Pàvana a Modena, e per un paio d’anni si è anche ritrovato a fare il giornalista alla “Gazzetta di Modena”, che allora si chiamava “Gazzetta dell’Emilia”. «Ho degli ottimi ricordi della mia esperienza in Gazzetta. Si lavorava molto e nel libro cito anche il primo pezzo che mi diedero da scrivere, i 50 anni di vocazione di una suora, tale Eustachio Maria Peloso... La vita di redazione era divertente, attraverso i telefoni interni ci facevamo anche degli scherzi terribili. Uno telefonava al cronista di nera dando notizia di un omicidio atroce e vedevamo quello balzare subito come una molla per precipitarsi dai carabinieri». Ormai Guccini era già sulla via Emilia... «Sì, ho già capito, tra la via Emilia e il West, vero? Questa è un’espressione da “Piccola città” che ha avuto una certa fortuna, ma io allora intendevo davvero che la dimensione avventurosa della nostra vita iniziava lì, a poche centinaia di metri da casa. Io abitavo in via Cucchiari, dove finiva la strada, poi la via Emilia si allungava in mezzo alla campagna e a noi sembrava avesse un orizzonte sterminato, c’era tutto lo spazio per l’immaginario...» L’immaginario erano i libri e la musica. «Sì, erano i libri, la musica, l’America... Venendo da una cultura popolare, la musica era importante. Non c’era la Tv, le radio erano poche e chi faceva musica rallegrava, gli altri andavano a cercarlo, diventavi un’attrazione e questo mi piaceva». E poi c’era Modena... «Ricordo la noia mortale della Modena di allora, anni ’50 e ’60. Non era molto diversa da oggi, direi. Anche allora la sera era deserta. Cambiava un po’ d’estate, e noi giovani andavamo al parco. Tenga conto che allora i rapporti con le ragazze erano scarsi e ci davamo da fare inventandoci delle cose, c’erano tante idee prese dai film che vedevamo. Un Natale, poi, siamo andati in giro per la città declamando Dickens e ce ne hanno dette di tutti i colori». Nel libro ci sono tanti episodi per capire come cambiano i tempi, come quando racconta dell’amico del cugino di Carpi, un anarchico diventato poi leghista. «A parecchi è successo, anarchici o, soprattutto, comunisti diventati leghisti. Si vede che c’era già il seme dentro...» Qual è l’Italia che vede ora? «L’impressione non è sicuramente buona. Nel dopoguerra c’era molta speranza, i genitori si sacrificavano perchè i figli avessero una vita migliore di quella che avevano avuto loro. Adesso, invece, i genitori devono tirare la cinghia semplicemente per mantenerli, questi figli, che non trovano lavoro o restano precari tutta la vita. Non c’è più fiducia, speranza. Io mi ricordo quanto si ballava nel dopoguerra.... Era un sintomo di ottimismo, di voglia di fare. Oggi non la vedo, più questa voglia». C’è una sua canzone, Cirano, più che mai attuale, con quell’invettiva “venite tutti avanti, politici rampanti, venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false...”. «Beh, “Cirano” la si può prendere e adattare un po’ a tutti i tempi. Certo, ora è più che mai calzante. E non è un buon segno».
sabato 24 aprile 2010
24 aprile 2010 Guccini da Carlo Petrini
da REpubblica
Dove celebrerà il 25 aprile Petrini?
«Come accade da un po´ di tempo salirò su a Treiso, nell´Alta Langa. Andrò a trovare un gruppo di persone che la Resistenza l´ha combattuta e ogni anno festeggia la ricorrenza. Mi spiace solo che per la prima volta non ci sia più il mitico comandante Paolo, Paolo Farinetti, partigiano in aeternum. Poi alla sera andrò a Cuneo, al teatro Toselli, per partecipare a una commemorazione del 25 aprile organizzata da don Aldo Benevelli. E oggi accompagnerò Francesco Guccini a Fontafredda per assistere alla bella iniziativa messa su da Oscar Farinetti: una lettura di pagine di grandi scrittori dedicate alla Resistenza. In altre parole, noto che il giorno della Resistenza continua a essere rievocato, magari con meno ufficialità, ma stessa partecipazione. Ed è quello che mi fa più piacere».
Dove celebrerà il 25 aprile Petrini?
«Come accade da un po´ di tempo salirò su a Treiso, nell´Alta Langa. Andrò a trovare un gruppo di persone che la Resistenza l´ha combattuta e ogni anno festeggia la ricorrenza. Mi spiace solo che per la prima volta non ci sia più il mitico comandante Paolo, Paolo Farinetti, partigiano in aeternum. Poi alla sera andrò a Cuneo, al teatro Toselli, per partecipare a una commemorazione del 25 aprile organizzata da don Aldo Benevelli. E oggi accompagnerò Francesco Guccini a Fontafredda per assistere alla bella iniziativa messa su da Oscar Farinetti: una lettura di pagine di grandi scrittori dedicate alla Resistenza. In altre parole, noto che il giorno della Resistenza continua a essere rievocato, magari con meno ufficialità, ma stessa partecipazione. Ed è quello che mi fa più piacere».
venerdì 23 aprile 2010
lunedì 19 aprile 2010
Vescovi irlandesi molestano giovini al concerto di Napoli?
di Nello Trocchia
‘Non toccate la resistenza’. Lo ripete come fosse un mantra, ritrovarsi prima che la sinistra farlocca inizi la saga dei rivoli e dei distinguo autolesionisti.Tenersi insieme lungo un tratto identitario, fatto di sguardi, ricordi e storia. La storia per lasciare quella vuota ai finti oppositori che, oggi, si lagnano del regime e, ieri, ne commemoravano l’altro, quello ufficiale del ventennio. La storia non si inventa, ma se la lasci al gelo dei se, forse, ma, diventa fragile, impercettibile, quasi menzognera. E allora canta la storia del Brutto, il partigiano legato al filo spinato, torturato e ammazzato dai nazifascisti lassù in collina: “ Era scalzo, né giacca, né camicia. Lungo un filo alla vita e tra le mani teneva un’asse di legno e con la scritta ‘Questa è la fine di tutti i partigiani’”. Francesco Guccini te lo ritrovi con la sua camicia fuori dai pantaloni, sempre uguale, senza negare ‘l’incedere del tempo’, rifiorisce con lui un’anima collettiva. Nessun intento taumaturgico ‘non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia”. Ma le generazioni ,invocate da più parti, rinsaviscono, si incontrano, condividono. La resistenza come pilastro di un paese, fondamento della nostra democrazia. Preghiera laica, la sua ‘Su in collina’, il racconto di partigiani che trovarono un compagno trucidato dai nazifascisti, padri degli impettiti ministri che, oggi, popolano questo proscenio del ridicolo chiamato ‘governo’. Da Napoli scherza su Apicella, su Berlusconi e con la sua ‘Testamento del pagliaccio’ schiaffeggia i ciarpami di un regime, narra l’inumazione della democrazia e di chi ci ha creduto: “ Poi ci vorrebbe qualche ‘mi consenta’, uno stilista mago del sublime, un vip con la troietta di regime, e chi si svende per denari trenta, un onesto mafioso riciclato, un duro e puro e cuore di nostalgico, travestito da quasi democratico che si sente padrone dello stato”.
Parole chiare, rifugge lo schema, elogia il dubbio, canta l’amore e la ribellione ‘il potere è l’immondizia degli umani’. Dal palco arriva l’irrisione, quando un ragazzo urla, Guccini si chiede: “ Sembra molestato, ci sono vescovi irlandesi nei paraggi?…”. Quella chiesa sbeffeggiata nei suo testi: ‘Da te, dalle tue immagine e della tua paura, dai preti di ogni credo, da ogni loro impostura(…) libera nos Domine”. Nelle sue ballate trovi lo scadimento morale, il diniego tetro, le sortite del basso impero “venite tutti avanti nuovi protagonisti, politici rampanti, venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false che avete spesso fatto del qualunquismo un arte, coraggio liberisti, buttate giù le carte tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese”.
Canta il ‘menefrego’ targato anni ‘80, i leoni che tornano in sella “E fecero voti con faccia scaltra a Nostra Signora dell' Ipocrisia perchè una mano lavasse l' altra, tutti colpevoli e così sia! E minacciosi ed un po' pregando, incenso sparsero al loro Dio, sempre accusando, sempre cercando il responsabile, non certo io”.
Senza conati vacui, Guccini, come sempre, ‘non perdona e tocca’. Meglio una battaglia combattuta e persa, sembra dire, che vite e firme chine.
‘Non toccate la resistenza’. Lo ripete come fosse un mantra, ritrovarsi prima che la sinistra farlocca inizi la saga dei rivoli e dei distinguo autolesionisti.Tenersi insieme lungo un tratto identitario, fatto di sguardi, ricordi e storia. La storia per lasciare quella vuota ai finti oppositori che, oggi, si lagnano del regime e, ieri, ne commemoravano l’altro, quello ufficiale del ventennio. La storia non si inventa, ma se la lasci al gelo dei se, forse, ma, diventa fragile, impercettibile, quasi menzognera. E allora canta la storia del Brutto, il partigiano legato al filo spinato, torturato e ammazzato dai nazifascisti lassù in collina: “ Era scalzo, né giacca, né camicia. Lungo un filo alla vita e tra le mani teneva un’asse di legno e con la scritta ‘Questa è la fine di tutti i partigiani’”. Francesco Guccini te lo ritrovi con la sua camicia fuori dai pantaloni, sempre uguale, senza negare ‘l’incedere del tempo’, rifiorisce con lui un’anima collettiva. Nessun intento taumaturgico ‘non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia”. Ma le generazioni ,invocate da più parti, rinsaviscono, si incontrano, condividono. La resistenza come pilastro di un paese, fondamento della nostra democrazia. Preghiera laica, la sua ‘Su in collina’, il racconto di partigiani che trovarono un compagno trucidato dai nazifascisti, padri degli impettiti ministri che, oggi, popolano questo proscenio del ridicolo chiamato ‘governo’. Da Napoli scherza su Apicella, su Berlusconi e con la sua ‘Testamento del pagliaccio’ schiaffeggia i ciarpami di un regime, narra l’inumazione della democrazia e di chi ci ha creduto: “ Poi ci vorrebbe qualche ‘mi consenta’, uno stilista mago del sublime, un vip con la troietta di regime, e chi si svende per denari trenta, un onesto mafioso riciclato, un duro e puro e cuore di nostalgico, travestito da quasi democratico che si sente padrone dello stato”.
Parole chiare, rifugge lo schema, elogia il dubbio, canta l’amore e la ribellione ‘il potere è l’immondizia degli umani’. Dal palco arriva l’irrisione, quando un ragazzo urla, Guccini si chiede: “ Sembra molestato, ci sono vescovi irlandesi nei paraggi?…”. Quella chiesa sbeffeggiata nei suo testi: ‘Da te, dalle tue immagine e della tua paura, dai preti di ogni credo, da ogni loro impostura(…) libera nos Domine”. Nelle sue ballate trovi lo scadimento morale, il diniego tetro, le sortite del basso impero “venite tutti avanti nuovi protagonisti, politici rampanti, venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false che avete spesso fatto del qualunquismo un arte, coraggio liberisti, buttate giù le carte tanto ci sarà sempre chi pagherà le spese in questo benedetto, assurdo bel paese”.
Canta il ‘menefrego’ targato anni ‘80, i leoni che tornano in sella “E fecero voti con faccia scaltra a Nostra Signora dell' Ipocrisia perchè una mano lavasse l' altra, tutti colpevoli e così sia! E minacciosi ed un po' pregando, incenso sparsero al loro Dio, sempre accusando, sempre cercando il responsabile, non certo io”.
Senza conati vacui, Guccini, come sempre, ‘non perdona e tocca’. Meglio una battaglia combattuta e persa, sembra dire, che vite e firme chine.
Iscriviti a:
Post (Atom)