- Claudio Salvaneschi - Gazzetta di Modena - 27 marzo 2010
«Io racconto questo posto, Pàvana, come era negli anni ’40- ’50, ed era un mondo appartato, rimasto indietro, dove io facevo le mie prime scoperte dentro quella civiltà contadina ancora ben viva e che poi è scomparsa. E lì c’è il mio imprinting, quello sono stato e sono, lì c’è il senso di tutto. Anche dopo averla lasciata con la famiglia, ogni estate ci tornavo negli anni ’60 e ’70. Nel 1970, quando ci sono tornato ad abitare d’estate, stavo lavorando al disco “Radici” e per curiosità ho iniziato a fare anche ricerche storiche sulla mia famiglia». E lì è spuntato il suo primo avo conosciuto, quel Guccino da Montagu del ’500, mugnaio, da cui vengono i Guccini... «Sì, e nel libro racconto di come questi Guccini fossero attaccabrighe e in fiera inimicizia con gli avi di Enzo Biagi, di Pianaccio, con faide anche sanguinose, oltretutto». Da Pàvana a Modena, e per un paio d’anni si è anche ritrovato a fare il giornalista alla “Gazzetta di Modena”, che allora si chiamava “Gazzetta dell’Emilia”. «Ho degli ottimi ricordi della mia esperienza in Gazzetta. Si lavorava molto e nel libro cito anche il primo pezzo che mi diedero da scrivere, i 50 anni di vocazione di una suora, tale Eustachio Maria Peloso... La vita di redazione era divertente, attraverso i telefoni interni ci facevamo anche degli scherzi terribili. Uno telefonava al cronista di nera dando notizia di un omicidio atroce e vedevamo quello balzare subito come una molla per precipitarsi dai carabinieri». Ormai Guccini era già sulla via Emilia... «Sì, ho già capito, tra la via Emilia e il West, vero? Questa è un’espressione da “Piccola città” che ha avuto una certa fortuna, ma io allora intendevo davvero che la dimensione avventurosa della nostra vita iniziava lì, a poche centinaia di metri da casa. Io abitavo in via Cucchiari, dove finiva la strada, poi la via Emilia si allungava in mezzo alla campagna e a noi sembrava avesse un orizzonte sterminato, c’era tutto lo spazio per l’immaginario...» L’immaginario erano i libri e la musica. «Sì, erano i libri, la musica, l’America... Venendo da una cultura popolare, la musica era importante. Non c’era la Tv, le radio erano poche e chi faceva musica rallegrava, gli altri andavano a cercarlo, diventavi un’attrazione e questo mi piaceva». E poi c’era Modena... «Ricordo la noia mortale della Modena di allora, anni ’50 e ’60. Non era molto diversa da oggi, direi. Anche allora la sera era deserta. Cambiava un po’ d’estate, e noi giovani andavamo al parco. Tenga conto che allora i rapporti con le ragazze erano scarsi e ci davamo da fare inventandoci delle cose, c’erano tante idee prese dai film che vedevamo. Un Natale, poi, siamo andati in giro per la città declamando Dickens e ce ne hanno dette di tutti i colori». Nel libro ci sono tanti episodi per capire come cambiano i tempi, come quando racconta dell’amico del cugino di Carpi, un anarchico diventato poi leghista. «A parecchi è successo, anarchici o, soprattutto, comunisti diventati leghisti. Si vede che c’era già il seme dentro...» Qual è l’Italia che vede ora? «L’impressione non è sicuramente buona. Nel dopoguerra c’era molta speranza, i genitori si sacrificavano perchè i figli avessero una vita migliore di quella che avevano avuto loro. Adesso, invece, i genitori devono tirare la cinghia semplicemente per mantenerli, questi figli, che non trovano lavoro o restano precari tutta la vita. Non c’è più fiducia, speranza. Io mi ricordo quanto si ballava nel dopoguerra.... Era un sintomo di ottimismo, di voglia di fare. Oggi non la vedo, più questa voglia». C’è una sua canzone, Cirano, più che mai attuale, con quell’invettiva “venite tutti avanti, politici rampanti, venite portaborse, ruffiani e mezze calze, feroci conduttori di trasmissioni false...”. «Beh, “Cirano” la si può prendere e adattare un po’ a tutti i tempi. Certo, ora è più che mai calzante. E non è un buon segno».
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