Chi è un mito? Chi ti fa scorrere lungo la schiena un brivido quando lo vedi, e questo Guccini lo provoca.
Per comprenderlo, bastava vedere a Modena la folla accorsa in massa, assiepata, quasi a strati al forum Monzani per la presentazione del suo ultimo libro, Non so che viso avesse scritto a quattro mani con Alberto Bertoni, poeta e italianista, prezioso e felino esegeta dei testi delle sue canzoni.
Sul palco accanto a Guccini, il Liga, il rocker Luciano Ligabue, Guido De Maria, creatore dei testi di oltre mille storici Caroselli e Valerio Massimo Manfredi, l’autore di romanzi-bestseller, tutti per festeggiare i settant’anni di Guccio e per riandare lungo la storia della sua vita, attraverso una vanvera padana, fra amici, sul crinale dell’ironia; e di crinali Guccini se ne intende perché le Radici di Francesco sono fra quella Via Emilia che spacca Modena in due - qui il cantautore nasce nel 1940 -e il West di Pàvana, paese-matrice della famiglia dei Guccini , “munari”, cioè mugnai, tutti discendenti da un cinquecentesco Guccino di Montagu’, bandito, come si racconta nella autobiografia. Pàvana, sul crinale fra Emilia e Toscana, è ancor oggi il suo luogo dell’anima.
Il libro corre, corre come una locomotiva, per 17 capitoli , per guardarsi indietro e cogliere in distanza quei passaggi dove dalla vita iniziale e “dei soldi in tasca niente” cambia tutto.
Ci sono i nonni, le nonne e i bisnonni, il bosco, il fiume, la montagna, la guerra.
C’è Modena, Piccola città bastardo posto. C’è via Paolo Fabbri 43, a Bologna, “donna emiliana di zigomo forte, che sa dov’è il sugo del sale”, “una vecchia signora dai fianchi un po’ molli col seno sul piano padano e il culo sui colli”. E poi i ricordi delle osterie bolognesi, sopra a tutte quella delle Dame e l’amore per i vini, i rubini rosè in particolare.
Guccini, quali sono i modelli e i miti che costruiscono il suo “ritratto dell’ artista da giovane”?
Innanzitutto, e su tutto, l’America. Era il mito. Noi leggevamo libri americani, ascoltavamo musica americana, guardavamo film americani. Sapevamo quasi a memoria Caldwell, Hemingway, Doss Passos e Steinbeck, molti di questi testi li leggevo alla biblioteca dei postelegrafonici di Pàvana. Ma l’innamoramento vero era già avvenuto nell’autunno del ‘44, durante la guerra, quando sulla Linea Gotica erano arrivati gli americani in carne e ossa.
La sua autobiografia è anche una saga di famiglia che rievoca antiche faide. Ad esempio quella con la famiglia di Enzo Biagi…
Il mio cinquecentesco progenitore Guccino era originario di Montagù, ossia Montacuto delle Alpi, un bellissimo paesino arroccato sul crinale appenninico sovrastante Pianaccio, il paese dei Biagi. Un certo Biagio Biagi uccise tal Tognarello Guccini e da lì iniziò una faida tra le due famiglie che si protrasse a lungo.
Dalle radici pavanesi all’infanzia modenese: con amici come Victor Sogliani e Alfio Cantarellla della nascente Equipe 84, o Bonvi, lo stralunato fumettista delle Sturmtruppen. Che cosa c’era di speciale nella Modena di quegli anni?
Non saprei dire, eravamo degli adolescenti nati attorno alla via “Emiglia”, mi raccomando: col gi elle come si dice da quelle parti!- che avevano scoperto il jazz e il rock and roll. Suonavamo nelle balere e ci divertivamo a fare scherzi terribili. Allora non pensavo che avrei fatto il musicista, tanto meno il cantautore di professione. Sognavo di diventare scrittore o almeno giornalista, e per un periodo lavorai come precario alla Gazzetta dell’Emilia, dalla quale ebbi anche il privilegio d’essere licenziato e poi riassunto nel giro di dieci minuti.
Quale molla la spingeva al giornalismo?
La reazione a quello che un mio insegnante, il maestro Paltrinieri, aveva dichiarato platealmente a mio padre : “Cosa vuole fare suo figlio? Lo scrittore? Se lo scordi: è un cane!”. Nemo propheta in patria est.
E veniamo all’apprendistato nelle balere: altroché eskimo e maglioni da pecatore! Si favoleggia che la sua prima apparizione come cantante-musicista sia avvenuta con una giacca a lustrini, un autentico prodigio del kitsch. O mi sbaglio?
Alt, si fermi: rimettiamo le cose a posto. La famigerata giacca con i lustrini ce l’aveva addosso Alfio Cantarella. La mia, se permette, era a pagode orientali.
Dalle balere modenesi alle osterie di Bologna: una carriera ad alta gradazione alcolica, oppure solo rosé, come insinua il suo amico Ligabue?
Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Sappia comunque che anche il mio compenso per la partecipazione a Radio Freccia, il film del Liga, me lo sono fatto versare in vino, presso una fidata bottiglieria di Bologna dalla quale ho continuato a prelevare a lungo.
Genio e sregolatezza: quasi un cliché per un cantautore. Ma quali sono stati i modelli del giovane Guccini che, più o meno all’età del servizio militare, scrive canzoni come L’antisociale, Auschwitz e Dio è morto?
Amavo innanzitutto i francesi: Georges Brassens e Jacques Brel, il suo Ne me quitte pas fu un’esperienza sconvolgente. Poi ecco irrompere Bob Dylan. Ci ha spalancato le porte della contestazione studentesca e della canzone di protesta, influenzando molto il modo di comporre di quel periodo: eravamo dylaniani fino al midollo.
Poi Guccini è diventato Guccini. Ossia un caposaldo della canzone d’autore e un mito transgenerazionale…
In effetti, se oggi il numero di aspiranti cantautori è impressionante, io e De André qualche responsabilità ce l’abbiamo…
Ma non c’è solo il Guccini cantautore: da Croniche epafaniche a Vacca d’un cane, da Cittanova blues ai gialli scritti a quattro mani con Loriano Machiavelli, anche il suo giovanile sogno di scrittore s’è più che mai realizzato. C’è qualche nuova sorpresa in arrivo?
Sto lavorando con Loriano a un giallo appenninico, protagonista una guardia forestale.
E le canzoni?
M’affretto lentamente.
E quell’infame sorrise.
* silvia.tomasi
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