La porta di via Paolo Fabbri 43 (foto Morandi)
Questo è un post fb di Andrea Scanzi, lo prendo in prestito per ricordare come eravamo e come torneremo ad essere:
QUELLA VOLTA CON GUCCINI, IL CATTIVO DI RADIOFRECCIA E FAVINO CHE FACEVA IL TRENINO
Questo è il racconto di una serata di otto anni fa. A scriverlo è stato Luigi Mariano, grande amico e grande cantautore. Quella sera accadde di tutto, e di serate così ne ho vissute e vivo così tante che rischio di dimenticarle. Sarebbe un reato. Ringrazio quindi Luigi per il racconto impeccabile. È tutto vero, compreso il trenino di Favino. In questi tempi cupi, qualche sorriso non fa certo male. Buon divertimento.
“10 marzo 2012:
A CENA CON GUCCINI e UNA FOLLE NOTTE ROMANA
Sarebbe abbastanza naturale per me poter vestire i panni (nonché l’intercalare) di un Gianni Minà d’annata (tipo: “eravamo io, Andrea Scanzi, Francesco Caldarola di LA7”, ecc). E rinfrescare a dovere un divertente aneddoto di otto anni fa esatti, quando (per una fortunata casualità) mi ritrovai a una tavolata, nel privé di un ristorante dalle parti di via Veneto, a cenare con il maestrone Francesco Guccini.
Il Guccio quel giorno era a Roma all’Auditorium (Sala Sinopoli) per presentare il suo libro “Il dizionario delle cose perdute”. Per l’occasione, sul palco, era intervistato da Andrea Scanzi: due poltroncine, un tavolino, due bicchieri. Tanti aneddoti e ricordi.
Ero in prima fila a seguire l’incontro. Alla fine vado a salutare al volo Scanzi dietro le quinte, prima (credevo io) di filarmela dritto a casa. Era con me anche Alessandro Sgritta. Ma non appena lo saluto, Andrea mi risponde sorpreso: “Ma Luigi, non vieni stasera a cena con Guccini?”. Resto allibito e spiazzato da quell’eventualità, neanche lontanamente ventilata. Non mi aspettavo questo gesto di grande generosità e amicizia da parte di Andrea, che conclude: “Dai, ti faccio riservare un posto. Ma davvero ti volevi lasciar scappare un’occasione simile?”.
Ed eccomi al tavolo del ristorante.
Il Guccio è sul lato lungo, al centro (tipo Gesù nell’ultima cena leonardesca). Sua moglie Raffaella è di fronte a lui, sull’altro lato. Sua figlia Teresa, un vero vulcano, è su un lato corto del tavolo, tipo capotavola. Alla destra di Guccini è seduto Andrea Scanzi. Alla destra di Scanzi ci sono io (allungando la mia mano sinistra potrei teoricamente anche bussare sulle enormi spalle del poeta!). E alla mia destra c’è Rita Allevato, che per tutta la sera, con grande affabilità e tenerezza, mi racconta spontaneamente molti fatti e curiosità riguardanti le attività del Guccio, le sue fisse, i suoi gusti nel bere (“questo è il periodo del rosato, ma sai, cambia ogni tre mesi, passando dal rosso al bianco appunto al rosato: per non annoiarsi”) e i suoi noti problemi con la vista.
Non spiccico parola per tutta la sera, frastornato: in certe situazioni inusuali viene fuori il mio stupore bambino e, in fin dei conti, la mia parte di anima più provinciale. Resto zitto. Se con l’orecchio destro dunque ascolto Rita e i suoi racconti, con l’orecchio sinistro cerco di non perdermi un solo particolare degli aneddoti via via snocciolati dal Guccio, rievocati con la solita semplicità montanara, un’immancabile ironia e un tono di voce sommesso e lento.
Per me sono attimi di grande felicità. Mentre vivo momenti del genere, penso al contempo: “Mi ci vorrà almeno una settimana a metabolizzare ogni minimo dettaglio della serata!”.
Anche per questo, quando ci si ritrova tutti sul marciapiede per i saluti finali e stringo la mano col batticuore anche al Guccio, confesso di non veder l’ora di filarmela a casa, perché le troppe emozioni da un lato sì mi fanno godere, ma dall’altro… mi consumano come una candela! E mi ricarico solo con siringoni di vibrante solitudine, che per me è come farsi una lunga pennica estiva ristoratrice. Non amo l’ingordigia, di nessun tipo, ho il senso della misura (tranne quando scrivo questi post): quell’incontro all’Auditorium aveva già avuto una coda del tutto inattesa, con l’incredibile cena assieme al maestrone. Cosa volere di più? Era già tanto, per me: anche troppo. E poi, fondamentalmente sono poco mondano e abbastanza orso. Perciò, quando Andrea Scanzi mi propose di girare per la città di notte, in macchina, scorrazzando da un locale all’altro col suo amico Francesco (di LA7) e con Teresa Guccini, declinai immediatamente. “No Andrea, io vado a casa”.
Scanzi sgranò gli occhi dallo stupore: “Ma come! Abbiamo tutta la notte a disposizione per divertirci tutti e quattro e tu… tu te ne vai a casa?”. Era incredulo. Da lì iniziò a canzonarmi un bel po’, per smuovermi. E io: “No Andrea, davvero. Mi piacerebbe molto venire con voi, credimi. Ma ho bisogno estremo di tornare a casa”. Mica facile spiegare al mondo la propria riservatezza-timidezza, che infiniti addusse fraintendimenti ai plebei (o a quei pochi sparuti poveracci, non certo Andrea ovviamente, che ancora la scambiano per “tirarsela”: una roba da ridere). Né risulta semplice giustificarsi con quella storia della “necessità di metabolizzare le emozioni”: può sempre apparire 'na roba piuttosto infantile. Andrea però mi voleva bene davvero, ci teneva molto a che io andassi con loro. E così, sfottendomi con affetto (“Sei il solito intellettuale! Dai, vieni!”), alla fine mi convinse.
Sebbene guidasse Francesco di La7, il vero cuore pulsante di quel folle giro notturno in auto era lei: Teresa Guccini. Lei indirizzava, proponeva, dettava la tabella di marcia, raccontando mille fatti e incontri. Teresa ci trascinò in una discoteca al primo piano, in zona Tiburtina. Io detesto le discoteche, ma soprattutto detestai quella in cui eravamo capitati. Andrea lo intuì facilmente e iniziò a ridacchiare divertito, specie quando mezz’ora dopo mi vide uscire (esausto da quel frastuono assordante ed alienante) per cercare rifugio e tregua all’aria aperta. “Vedo che ti diverti molto, Luigi”, sfotté, ridendo molto. “E dai, non fare sempre l’intellettuale, dedichiamoci al cazzeggio, almeno stanotte”, concluse ilare, mentre io (orso pelandrone) scuotevo la testa disperato.
Verso l’una, Teresa uscì d’improvviso e ci raggiunse fuori, strappandoci a quel pandemonio e trascinandoci di nuovo in macchina per un altro giro di giostra, di cui prometteva di svelarci ogni minimo dettaglio durante il tragitto. Di nuovo Francesco, alla guida, si dimostrò pronto ad assecondare le sue direttive. Questa volta Teresa ci raccontò di Roberto Zibetti, un suo amico attore che aveva conosciuto sul set di “RadioFreccia” (interpretava il cattivo Boris) e che proprio quella sera (per meglio dire: quella notte) festeggiava il suo 41mo compleanno. Io, Andrea e Francesco eravamo molto imbarazzati: non conoscevamo assolutamente questo Roberto e non ci sembrava il caso, all’una e venti di notte, di imbucarci ad una festa senza essere stati invitati. Ma Teresa ci intimò di non farci alcun problema: eravamo amici suoi o no? E Roberto sarebbe stato felicissimo di accoglierci tutti. Arrivammo davanti a un palazzo molto antico, dall’aria aristocratica, evitammo l’ascensore e salimmo le scale a due a due, davvero increduli di quella strana e folle avventura, trascinati dall’impeto travolgente del ciclone-Teresa.
Entrammo in casa (non grande) e ci guardammo stupefatti: nella sala principale sembravano in atto strabordanti festeggiamenti. Più che un compleanno, ricordavano i baccanali o il carnevale di Rio, o comunque la falsariga di una sguaiata notte di Capodanno, con urla, stereo a palla, piatti unti per terra e tanto di trenino impazzito che viaggiava a serpentone, con a capo un Pierfrancesco Favino “leggermente” brillo, sulle cui spalle troneggiava una bambina! Neanche Sorrentino in un momento di folgorante ispirazione avrebbe potuto dipingere un bozzetto più estraniante e suggestivo. Teresa ci presentò (io ero imbarazzatissimo, nonostante gli sfottò catartici e continui di Scanzi) al padrone di casa e festeggiato, Roberto, con cui iniziò a intrattenersi in un angolo. Io e gli altri invece vagavamo un po’ sconsolati per la casa, fino a che io non intravidi una porticina, che conduceva a un salottino più riservato e tranquillo, dove due tizi giocavano a scacchi e altri due si riposavano appartati. Mi sembrò un luogo decisamente più adatto a me. Sgattaiolai dentro, furtivo. In un angolo scovai un pianoforte a muro e finalmente un sorriso euforico affiorò dalle mie labbra immusonite! Mi rincuorai! Chiesi agli altri se potessi azzardarmi a strimpellarlo con estrema discrezione. Tutti annuirono all’unisono, come se stessi loro offrendo un qualcosa di liberatorio. Erano della mia “tribù”, quelli. Peccato che il frastuono delle urla e canti provenienti dalla sala principale (quella dei trenini gozzoviglianti) coprisse letteralmente ogni singola nota da me abbozzata al piano. Abbacchiato e sconsolato, decisi ugualmente di suonare (solo la musica, ovviamente) un pezzo di Capossela. E, concettualmente, mi parve che in quella situazione surreale “Stanco e perduto” potesse fotografare bene il mio stato d’animo. Suonai a memoria, come potrebbe fare un sordo, visto che non si sentiva quasi nulla, a causa del suddetto rumore.
Dopo pochi minuti spuntò dalla porta la faccia sorniona di Andrea: “Luigi, ma dov’eri finito? Dai, vieni di là che ci si diverte!”, sfotté, ridacchiando.
“Neanche matto”, risposi serio, continuando a suonare. Lui percepì, non so come, la melodia dell’intro di “Stanco e perduto” e chiosò scuotendo il capo: “Capossela? Sei il solito intellettuale! Di là ci si diverte con Raffaella Carrà, dai! Vieni, forza!”. E rideva a crepapelle, sapendo che era stato lui a trascinarmi in quelle esagerate notti romane, in un tempo forse più spensierato e birichino di questo, che ora rimpiango un po’.
Fuggiti da lì, finimmo col fare le quattro del mattino in un bar deserto di Trastevere, a raccontarci (stavolta seri) ogni particolare delle nostre personali vicende sentimentali, che spiattellammo agli altri come in un confessionale notturno.
Per smaltire e metabolizzare una simile giornata (partita il pomeriggio con l’intervista di Andrea al Guccio) mi ci volle quasi una settimana.
Ma ne valse dannatamente la pena.”
Luigi Mariano
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