mercoledì 3 febbraio 2010

Recensioni: Brunella Torresin - Repubblica Bologna

«Ho scritto più introduzioni io di quanti romanzi abbia scritto Alessandro Dumas», confessa Francesco Guccini. Sembra quasi lamentarsene un po´, nelle belle pagine che ha dedicato a Bonvi - una lunga affettuosa lettera all´amico scomparso - in «Non so che viso avesse»: la storia della sua vita, scritta a quattro mani con l´italianista e poeta Alberto Bertoni, pubblicata da Mondadori nella collana Ingrandimenti, e da ieri in libreria (pp. 225, € 16). Anche le centocinque pagine autobiografiche che precedono le centonove pagine critiche di Bertoni (su Vita e opere di Francesco) hanno il sapore di un´introduzione, molto più che di un racconto sistematico. Come scrive Bertoni, «a 22 anni Francesco Guccini aveva già tentato le carriere di studente universitario, di giornalista e di cantante con diversi gruppi dai nomi improbabili».

Dai beati anni dell´infanzia al tirocinio da giornalista alla Gazzetta di Modena, dalla naja al primo complesso, dalle prime canzoni al primo concerto e fino alla Locomotiva, Guccini (oggi sulla soglia dei settant´anni, essendo nato a Modena il 14 giugno 1940) si racconta in diciassette capitoli, erratici, talvolta suggeriti dalle domande di un invisibile interlocutore (che altri non è che Beppe Cottafavi, il fondatore di Comix, lo svela l´autore). Diciassette capitoli per descrivere un mondo perduto, ma senza farci dei drammi. Oggi «tutto va sulla fretta e il consumo», e «allora, amen». «I tempi sono tempi. Ed è inutile piangere sul latte, pardon, sul vino versato». Scrive di osterie, naturalmente. Lui ha molto amato l´Osteria dei Poeti, quando l´oste era Paolo, mite stalinista. E l´Osteria delle Dame, che ha creato dal nulla, nell´ottobre del ´70, assieme a «un frate domenicano, padre Michele Casali che, figlio di un soprano e di un impresario teatrale era stato a sua volta impresario». Oggi «L´osteria è morta, ma non gridiamo, come per i re: "Viva l´osteria"». Non racconta pressoché mai le sue canzoni (a parte una, La locomotiva), ma racconta dell´amore per i libri («una piacevole condanna, una dolce maledizione»), per le biblioteche e per molte librerie domestiche.
Scrive anche, lo fa tra le righe della sua lettera a Bonvi, che «Invecchiare e lasciarsi dietro un mucchio di gente: è, tutto sommato, sopravvivere». Ma non è vero. È vero che lui è tornato là da dove ogni cosa era iniziata, il mulino di Pàvana («Questo, in fondo, sono stato e sono ancor oggi, a tanti anni di distanza») e i Guccini mugnai, che aveva già celebrato in Radici («Avrebbero mai immaginato, questi ultimi, che una settantina di anni dopo sarebbero finiti sulla copertina di un Lp?»). Ed è vero che da lassù molto appare un po´ distante, talvolta blandamente insensato, come fosse un film. Già, il cinema, è un altro amore d´infanzia. Ma tanto è elegiaco e struggente il capitolo sul mulino degli avi, quanto è divertente il capitolo sul cinema, e le apparenti vessazioni delle quali, da adulto, Guccini è stato vittima.
Il primo a volerlo sul set fu Gianfranco Mingozzi, nel 1976 (in un film Rai, Fantasia, ma non troppo, per violino), e Guccini dovette calarsi in «braghe fermate al ginocchio» e dentro «un corto giubbetto che copriva una specie di camicia con gli sbuffi» dove si ravvisava Giulio Cesare Croce: tutta la città ne rise, si schernisce l´autore attore. Nel 1979 recita uno sketch per Paolo Pietrangeli durante un vero concerto, e rischia la rivolta del pubblico. Nel 1987 ancora per Mingozzi sale in montagna, si cala nel ruolo di un partigiano e patisce un freddo cane; nel 1989 recita per Stefano Benni in Musica per vecchi animali con uno sdrucito cilindro in testa; nel 1998 per Luciano Ligabue è il barista Adolfo di Radiofreccia; fino all´ultimo recentissimo Pieraccioni, Io e Marilyn, in cui lo si vede in giacca e papillon nel ruolo di uno psichiatra: «Orrore!».
(03 febbraio 2010)

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