Intervista di Mario Chiodetti
Il signor Francesco Guccini, di anni 71, potrebbe essere un tranquillo professore in pensione, assorbito dalle sue letture e dalla scrittura di qualche saggio su autori dimenticati, lo studio luminoso con il camino, i colori dell'autunno che riempiono le finestra di una luce dorata e malinconica.
A Pàvana sull'Appennino, niente è più lontano del manifesto, ormai epocale, in cui il Francesco cantautore, barba e baffi alla Che Guevara, compare da circa quarant'anni sui muri di mezza Italia, ad annunciare la tournée prossima ventura.
La «chitarra ed il fiasco», gli inseparabili musicisti, "Flaco" Biondini, Ellade Bandini e Vince Tempera, la "erre" ronzante che a volte sparisce nel canto, sono tutti amuleti di cui i fan vanno fieri, perché sembrano eterni e invincibili.
Francesco è di nuovo al mulino dei suoi vecchi, un rifugio da eremiti, scosso soltanto in estate dalle voci di qualche «becca aria», cittadini affamati di una natura che non conoscono, vista tutt'al più in televisione o nelle riviste patinate. Con i primi freddi se ne vanno anche quelli, e Pàvana ritorna un punto indefinito sull'Appennino, lontanissimo dai palasport, da luci e amplificatori, sciarpe agitate e qualche pugno chiuso.
Però... però Guccini proprio allora scende dalla montagna e ritorna nelle città, per un tour che probabilmente sarà l'ultimo o forse no, a cercare il contatto con il suo pubblico, quelli della sua età che lo ascoltavano da giovani e i giovani che ancora lo ascoltano in mp3, tra una fermata e l'altra della metropolitana.
Varese è l'unica data lombarda di questo giro di concerti, Francesco ci tiene perché sa che qui lo amano in tanti, anche quando ci butta in faccia i nostri difetti di provinciali pasciuti e un po' superficiali, più attenti alle vetrine che ai vetri rotti dei contestatori.
Guccini chissà dov'è, al telefono non risponde, quelli di Lunatik lo cercano perché l'appuntamento per l'intervista era mezz'ora prima, ma alla fine eccolo all'altro capo del filo, sornione.
Francesco, ma lì da voi c'è la luce? Qualche osteria, ritrovi dove far tardi?
Le osterie e i tarocchi li ho lasciati a Bologna, dove peraltro vado ogni tanto, quando devo parlare con il mio amico e coautore, Loriano Macchiavelli. Qui comunque ho diversi amici, ci si vede da me, si beve si parla.
Come passa le sue giornate a Pàvana?
Leggo, anzi rileggo molto. Cose assorbite da ragazzo che oggi riaffiorano, così sento il bisogno di riprenderle. Kipling, per esempio, mi sono riletto i suoi racconti e due romanzi. Poi scelgo libri di linguistica e storia locale, perfino gialli, quelli degli autori di moda, gli svedesi e i norvegesi, ma anche classici, come Nero Wolfe ed Ellery Queen.
Come è andato «Malastagione», scritto con Macchiavelli?
Molto bene, tanto che in Germania ne hanno acquistato i diritti. Con Loriano abbiamo in mente un altro romanzo sempre ambientato sull'Appennino, stavolta è una storia vera, capitata alla Guardia Forestale. Ma sarà cosa futura, ora abbiamo in lavorazione ognuno un proprio libro.
Il suo qual è?
«Un saggio sugli oggetti che non ci sono più, il telefono a muro, per esempio, che una volta era nero e appeso di fianco alla porta d'ingresso. Uscirà a gennaio per Mondadori, sono riflessioni su cose che magari ritenevamo importantissime con gli occhi dell'infanzia, che tutto ingrandiscono.
(Leggi l'intervista completa sull'edizione cartacea de "La Provincia" di Como in edicola il 7 novembre)
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