Sono appena salito in macchina e, come al solito, la mia compagna
ha subito acceso l’autoradio. È lei che guida, io non ho la patente, e questo le conferisce l’autorità di scegliersi che cosa ascoltare. A volte i gusti coincidono, poche volte in verità. Dicevo, non ho fatto in tempo ad accomodarmi sul sedile e ad allacciare la cintura di sicurezza che lei ha già selezionato – e imposto – un CD: “Francesco, per favore, abbi pazienza e dammi retta! Sono forti, vedrai!”.
Al giorno d’oggi è quasi un’impresa ascoltare un disco senza essersi procurati alcune informazioni preliminari, quindi senza pregiudizi: bastano un PC o l’“iPhone”, ci si collega a Internet, si digita “Google” o “MySpace”, e qualunque cantante o cantautore non ha più segreti.
Invece un primo impatto senza bisogno di curriculum conta, eccome. Perché sono il timbro della voce, la specifica varietà della musica e la capacità emozionale delle parole che devono restare impresse, che devono colpire.
E questo disco impressiona.
La prima canzone si intitola “La Psicantria”, ed è un vero e proprio manifesto: essa spiega (cantando!) la differenza che passa fra uno psichiatra, uno psicologo e uno psicoterapeuta. Due voci maschili si alternano – una più bassa e corposa, verrebbe da dire più adulta, l’altra sorprendentemente limpida, perfettamente a suo agio con gli acuti – a un coro di voci bianche. Le altre canzoni mentre si susseguono l’una dopo l’altra, raccontano storie che non ti aspetti, esperienze e ricordi di anoressia, di depressione, di ansia e attacchi di panico, di ipocondria.
I personaggi, che spesso narrano di sé in prima persona, non solo sanno esordire e presentarsi con la sicurezza e la padronanza di attori consumati ma possiedono una presenza scenica raramente riscontrabile perfino nei testi di chi, come i cantautori, scrive abitualmente per mestiere.
Ecco allora lo schizofrenico, l’individuo affetto da disturbo ossessivo-compulsivo, la personalità bipolare, quella borderline: pazienti nel significato etimologico del termine, persone che sentono nel profondo, che subiscono il peso dell’esistenza, che sono troppo sensibili. Non si pensi, però, ad una carrellata da Circo Barnum, a uno show di casi umani: gli autori, Palmieri e Grassilli, se da un lato si schermano abilmente dietro la figura retorica dell’ironia, dall’altro mostrano una professionalità competente, da veri esperti dell’argomento, e queste imprevedibili canzoni sono lo spiazzante e provocatorio risultato di uno studio molto serio e autenticamente appassionato. D’accordo, quella trattata è materia delicatissima, ma non aspettatevi bozzetti, stramberie, favolette dai contenuti morbosi. Ogni ascolto lascia un’impressione netta, indelebile, e la consapevolezza di incontri memorabili con uomini e donne che, pur con tutte le loro debolezze, le loro mancanze, le loro sofferenze, ci fanno affezionare; di più, ci fanno cantare a squarciagola, con entusiasmo e coinvolgimento, la loro Storia, le loro insindacabili vicende.
Se ciò accade è perché si percepisce, in chi scrive e compone, oltre a una indiscutibile preparazione intellettuale, un altro ingrediente: l’abitudine alla cura, al rispetto, alla volontà di fare bene. Questi due giovani autori sono riusciti nell’impresa – tanto più importante e preziosa di questi tempi – di cantare la fiducia nelle qualità spirituali dell’uomo, e la speranza nelle potenzialità espressive e nelle risorse morali degli esseri umani. La felicità dell’anima e la “guarigione”, sono a portata di mano, se si ha vicino la guida giusta: basta solo un piccolo sforzo, basta imparare a prendersi cura di sé.
Adesso possiamo rivelarlo: Gaspare Palmieri è psichiatra, e Cristian Grassilli psicoterapeuta. Lavori misteriosi. Professioni che, come la mia, mettono addosso un bel po’ di ansia da prestazione, di responsabilità. Riflettendo sulle parole di certe canzoni tornano alla memoria gli esempi e gli insegnamenti degli Italiani migliori, di Maria Montessori e di Franco Basaglia. Alcune frasi possiedono la forza stilistica degli epigrammi e il tono autorevole delle sentenze e c’è una poetica ben riconoscibile dentro a questi brani in musica, quella che sa rintracciare nel dolore un’ipnotica, peculiare bellezza, meno convenzionale ma altrettanto seducente. Chi non ha in mente l’estetica, che è prima di tutto un’etica, dei “mostri” infelicissimi portati sullo schermo da Tim Burton? La fragilità, l’instabilità emotiva, ogni condizione di autoemarginazione o disadattamento, diventano occasione e pretesto per valori alternativi, segnati da un alto tasso di originalità e anticonformismo.
Ma la vera intuizione, da parte di Palmieri e di Grassilli, è che la musica, meglio, la canzone, sia un mezzo fantastico, a poco prezzo, per creare empatia, per suscitare partecipazione: sono pronto a scommettere che queste canzoni, orecchiabili, a volte persino ballabili, riuscirebbero a muovere emozioni anche in chi non fosse particolarmente interessato a indagare la condizione esistenziale propria e altrui e che “Mio fratello” e “Abbi cura di te” non sfigurerebbero in nessuna hit parade.
La malattia mentale è ancora oggi, purtroppo, un tabù, e alcune patologie sanno suscitare nient’altro che sospetto, diffidenza, paura, anche se certi vissuti sono solo apparentemente distanti e lontani da quelli dei cosiddetti “normali”. E pensare che basterebbe sentir suonare una canzone per ritrovarsi a cantare insieme, a sdrammatizzare, a condividere.
Grandissimo testo, bravo Guccini e bravo Ciofanskj
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