giovedì 24 gennaio 2013
L'albicocco di Pàvana
La mia chiacchierata con Francesco Guccini
di Franco Benesperi - da Insieme nr. 65 luglio 2011
Non un’intervista vera e propria, ma una chiacchierata intorno a un tavolo, quasi fossimo a veglia. Abbiamo incontrato Francesco Guccini, così, da “Checco”, a Pistoia, fra una minestra di pasta e fagioli e un baccalà alla livornese, fra un bicchiere di rosso toscano e un gotto di rhum, al termine di un intenso pomeriggio trascorso a parlare di montagna e di tradizioni, quelle genuine della sua Pavana, dove nascono albicocche davvero speciali, da dividere a metà con la moglie Raffaella, il suo angelo custode, alla quale ha dedicato tre delle sue splendide canzoni: Vorrei, Certo non sai e Canzone delle colombe e del fiore. Ecco quello che ne è venuto fuori...
Chi è Francesco Guccini, oggi?
Francesco Guccini oggi è un signore di quasi settantuno anni, stanco di lavorare, come sempre. Un signore che era già stanco quarant’anni fa e quindi a maggior ragione oggi… Guccini è uno che legge molto e che vive a Pavana, in provincia di Pistoia.
Ma il Guccini di oggi è lo stesso dell’Avvelenata, di Dio è morto, del Sessantotto, oppure è un’altra persona?
Si cambia tutti, nella vita. Cambiano le prospettive, i desideri, anche se moralmente non sono tanto cambiato. Anzi, sono lo stesso di una volta. Quando si parte con una moralità, con un’idea, quella rimane per tutta la vita. Si cambiano, invece, le abitudini. Quando abitavo a Bologna, a mezzanotte e mezzo guardavo l’orologio e dicevo “Sarà presto per uscire!”, adesso a quell’ora sono già a letto da un po’, anche se poi leggo fino all’una.
Dio è morto o gode buona salute?
Se ti riferisci alla canzone, devo dire che la canto ancora oggi e i giovani l’accolgono sempre con grande entusiasmo. Anche se per me non è più come una volta. Quando la scrissi era una canzone generazionale, era il 1965 o giù di lì. Allora c’era una generazione che doveva emergere, che doveva venir fuori, in qualche modo. Le scuole che Fellini ha descritto in Amarcord erano le stesse che ho frequentato dopo la guerra. C’era stata una guerra in mezzo e non era cambiato niente. Quindi la nostra generazione doveva cambiare qualcosa, dovevamo darci daffare per modificare la struttura. Dio è morto piace ancora, anche se per me è rimasta la canzone di allora e non credo che possa dire qualcosa di più. Sono i fruitori della canzone che le danno significati nuovi e quindi va bene così…
E l’Avvelenata…
E’ una canzone del ’75 che contestava un certo mondo dello spettacolo e dei giornali, niente di più.
E il Sessantotto?
Il Sessantotto, in Italia, è qualcosa che succede un anno dopo…in ritardo come sempre! Allora c’erano delle speranze, che in parte si sono realizzate. Giorgio Gaber diceva “Noi siamo una generazione di perdenti!”, ma io non ero d’accordo. Avrei voluto discuterne con Giorgio, che conoscevo bene… Noi non eravamo dei perdenti. Tutto sommato, a noi era andata anche bene. I perdenti erano stati i nostri genitori che avevano fatto due guerre. Certo, non è stato realizzato tutto, ma molto sì. Io sono rimasto quello che ero allora, anche se mi capita di assistere a dei trasformismi da parte di chi oggi condivide lo status quo e all’epoca mi criticava perché non ero abbastanza rivoluzionario.
Quando ha iniziato a scrivere i libri?
Ho iniziato molto prima di scrivere le canzoni. Il mio primo libro è del ’48, Brazos Bill il Coiote, erano due, tre pagine di quaderno. Il mio desiderio di scrivere romanzi viene da lontano. Scrivevo a mano, a macchina e poi ho incontrato… il computer. Uno strumento molto più comodo perché cancello, trasporto, taglio, incollo e tutto rimane lì. Prima, invece, quello che scrivevo era tutto più disordinato, perdevo i fogli… Il primo romanzo, Croniche epafaniche, l’ho scritto alla metà degli anni Settanta, con il mio primo computer, che ho comprato perché stavo scrivendo il dizionario del dialetto di Pavana. Ripeto, ho sempre scritto, ho scritto molto prima di scrivere le canzoni, anche se non portavo niente a termine.
Guccini cantautore, Guccini scrittore. E’ uguale o diverso il messaggio che vuole trasmettere ai suoi estimatori?
Non ho mai voluto trasmettere alcun messaggio. Amo molto scrivere e raccontare. Sono sempre la stessa persona, sia che scriva canzoni, sia che scriva un libro. Scrivo solo in maniera diversa perché diverse sono le tecniche, diversi sono i modi di esprimersi. La canzone è una cosa, la prosa è un’altra. La canzone è soprattutto sintesi, è un’idea che deve essere sviluppata in strofe, in versi, in rime, in metrica. Nella pagina si ha più libertà, si può “pompare”, da una pagina si può andare avanti a due, tre, quattro. La canzone, invece, è più ristretta, più sobria, più presente a quello che si vuol dire.
Qual è la canzone che più le è rimasta nel cuore?
Non ce n’è una in particolare. La canzone migliore è quella che devo ancora scrivere.
Le sue canzoni e i suoi libri sono popolati da personaggi incredibili. Se oggi dovesse raccontare la storia di una persona, avrebbe in mente qualcuno che non sia databile o legato a un tempo passato? Perché oggi raccontare la storia di qualcuno che appartenga al nostro mondo è più difficile?
Uno scrittore che ho sempre ammirato è l’argentino Luis Borges, il quale ha scritto che “ogni scrittore è sempre autobiografico”. Questo può dirsi in due modi: “Sono nato il giorno tale, nel posto tale…”, oppure “C’era un re che aveva tre figlie…”. Anche nel raccontare una favola uno scrittore parte sempre da sé stesso, da quello che ha dentro e quindi, necessariamente, dalla propria esperienza. Anche se uno si inventa dei personaggi apparentemente al di fuori di sé, deve comunque partire sempre dal proprio vissuto, dalla propria esperienza. E’ difficile inventare al di fuori da quello che si è.
Cambiamo argomento. Ci parli un po’ del suo albicocco, che ha su, a Pavana. E’ vero che fa le albicocche già divise in due, metà per lei e metà per Raffaella?
Questo è un segreto familiare di cui non posso parlare. Siccome è un albicocco che ne fa poche ogni anno, vengono rigorosamente divise in due. Nessuno ne mangia una intera da solo. Si prende l’albicocca, si spacca in due…
Ma sono come quelle che trova al supermercato?
Eh, no! Quando hai mangiato una delle nostre albicocche…Oggi la frutta la colgono quasi acerba, poi la tengono lì…Non sono le albicocche colte dall’albero! Non sono le albicocche di Pavana!
Qual è il suo rapporto con il vino, che non manca mai ai suoi concerti?
Quando vengono a trovarmi, tutti mi portano una, due bottiglie di vino e io dico sempre “Guardate, non sono un alcolizzato!”. A tavola, per esempio, bevo acqua e solo verso la fine del pasto bevo uno, due bicchieri di vino.
E, allora, perché sul palco lei ha sempre il fiasco del vino?
Nasce da quando cantavo all’Osteria delle dame. Erano spettacoli in cui si beveva un po’ di vino e da lì ho conservato questa abitudine che serve ad addolcire la gola…
Però, abbiamo scoperto che, in realtà, il vino non è più rosso ma è diventato rosé. Perché?
Sono scelte di vita che uno fa… Non ho pregiudizi…Va bene il rosso, va bene il bianco, va bene il rosé…Sul palco, bello fresco, preferisco il rosé!
E la band che suona con lei è sempre la stessa? Da quanti anni siete insieme?
Ho cominciato con Flaco (il chitarrista Juan Carlos Flaco Biondi)
Il suo rapporto con la televisione?
La guardo, sì, la guardo la televisione…
E le famose partite a tresette con gli amici?
Questo è un lato abbandonato. Non gioco quasi più, se non raramente, ogni tanto, per fare una partita, ma non è più come una volta. Una volta, quando abitavo a Bologna, si giocava a carte tutte le sere, nella trattoria a due passi da casa mia, “Da Vito”, dove ancora vanno tutti a cercarmi. Lì, incominciavamo verso l’una, l’una e mezza a giocare a carte e rimanevamo a giocare anche fino alle quattro, quando il locale era già chiuso. E giocavamo per il gusto di giocare…non ci siamo mai giocati neanche un caffè! Giocavamo ai giochi italiani, come la briscola, il tresette, lo scopone o altri giochi locali come il pigugnino o il tarocchino bolognese, un gioco rarissimo, preziosissimo, molto difficile da giocare, che si fa con un mazzo speciale di 62 carte. Giocavamo tutte le sere a tarocco, detto anche cartelun dell’Ottocento. Giocavamo poi alle minchiate fiorentine, un gioco oggi scomparso nel turbinio del tempo, che si gioca ancora un poco in Piemonte, un poco in Provenza, ma in maniera molto semplificata rispetto al tarocchino bolognese. Pensa, ci vuole almeno un mese solo per imparare a contare i punti!
Ci dica ancora del pigugnino…
E’ un “tresette a chi fa meno”, con delle complicazioni…Si pagano due punti ogni fine partita: un punto di penalità a chi non prende o a chi fa più punti…E’ un gioco che fa il fante di spade, detto pigugnno. Erano giochi molto semplici, molto sciocchi, se vogliamo…ma era sempre una festa!
E le partite a scopone?
A scopone giocavamo da professionisti! C’è una famosa partita di
tivi manager non se ne fece di niente…Però ho sempre avuto una grande stima di lui e con lui ho sempre avuto un ottimo rapporto.
E con Gaber, com’era il suo rapporto?
Ottimo. Ci siamo conosciuti e un paio di volte è venuto anche a Pavana, mentre io sono stato a trovarlo in Versilia, dove lui abitava. Era un’ottima persona e con lui discutevamo molto spesso della vita. Quando veniva a Bologna, mi cercava sempre…
E per finire, quale messaggio vuole lanciare ai giovani di oggi?
Nessun messaggio. Non ho mai detto di avere messaggi da trasmettere e non mi sento di dare alcun messaggio a nessuno. L’opera è aperta, come ha detto qualche tempo fa Umberto Eco (che ha definito Guccini come “il più colto dei cantautori in circolazione).
Personalmente, mi sento responsabile di quello che ho sempre sostenuto, ma è giusto che ognuno prenda quello che gli pare.
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