Da "Il fatto quotidiano" di Bologna del 9 aprile 2011
Una Bologna che muore
Bologna io me la ricordo com’era una volta. Ho avuto la fortuna-sfortuna di viverla in maniera tangente. La fortuna di vedere un universo oramai mitizzato che non esiste più, la sfortuna di provarne nostalgia e di non vedere un reale passaggio di testimone con i ragazzi della mia generazione.
A Bologna c’erano le osterie. Ricordo le Dame e Vito. Ricordo le serate intrise di fumo a coprire tutto come una coltre; perché allora si poteva ancora fumare. Si bighellonava fino a tarda notte, si giocava a carte e si cantava, poi erano solo vino e discussioni e politica.
Ricordo tutti questi volti che ho poi imparato a collocare tra le persone famose ma il ricordo è sfumato perché io ero bambina. Ricordo quando per la prima volta mi sono resa conto del concetto di famoso. Per me erano solo volti consueti o amici di casa, poi ho capito che erano anche qualcosa di diverso. A sera, salivo sulle ginocchia di qualcuno e si provava a cantare, oppure ascoltavo quelle voci, quei suoni, quelle atmosfere confuse e cercavo di ridere anch’io di battute e discorsi che non afferravo fino in fondo. Ma chissà perché quei grandi ridevano così tanto? E chissà per cosa.
E poi quel frate. Quell’uomo sempre sorridente che doveva stare in chiesa, mica lì con quella strana tunica a quelle serate. Che strano. Chissà cosa ci faceva un frate in osteria fino a tarda notte; mi chiedevo: “Babbo che ci fa un prete in osteria?” “Ci lavora”, mi rispondeva mio padre tranquillo. Ma non ero mai del tutto convinta.
E poi gli scherzi e tanti. Era una Bologna goliardica e profonda. Da quelle notti nascevano canzoni, fumetti e libri. Ma lo avrei imparato solo molto più tardi, quando ho collegato che tutto il mondo che faceva parte della mia vita d’infanzia era qualcosa di più. Era un momento sociale preciso e importante, un movimento quasi, un passaggio di un’epoca culturale. Ma per me, allora, e in parte ancora oggi, erano solo voci e momenti destinati a spegnersi sempre in maniera soffusa, a poco a poco, quando gli occhi non reggevano più la stanchezza e il sonno cancellava ogni cosa.
A Bologna esisteva ancora un mondo che adesso sta morendo. I negozietti di quartiere: latteria, macellaio e panettiere ad ogni isolato, gli anziani in bicicletta con le mollette ai pantaloni e il pollaio nei giardini dietro casa. La mattina si sentiva ancora il gallo nei giardini delle case operaie di primi novecento della Cirenaica. Un mondo antico che resisteva ancora, nascosto ma non troppo, agli inizi degli anni Ottanta. Al bar Roberta, dietro casa, mi regalavano ancora la spuma. Che gioia! Quella bibita giallo fluorescente e frizzosa. Come le caramelle pillichine, come le chiamavo io. Ve le ricordate? Si mettevano in bocca e venivano i brividi dappertutto.
A Bologna si poteva arrivare in macchina in Piazza Maggiore e posso davvero giurarlo perché ho il netto ricordo di un’alba vista dalla R4 dei miei genitori. Si partiva con il pullman dalla piazza. Adesso si rischierebbe di essere arrestati.
A Bologna oggi è arrivata la primavera. E quello non è mutato. E’ rimasto uguale. Quell’odore inconfondibile che solo un vero bolognese riconosce. Non è un’aroma definito o distinguibile, è un insieme calibrato di erba tagliata, di ozono e di fiori. Un insieme elettrico che avvolge tutto e ti obbliga a uscire di casa, a saltare in sella al motorino e ad andare sui colli a prendere il sole e a mangiare una tigella Dal Nonno o a bere un bicchiere di vino all’Osteria del Sole verso sera, con gli amici di sempre, prima che cali la luce.
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