domenica 27 giugno 2010

Mai prima di mezzogiorno!


Mi raccomando, se andate a trovarlo evitate le prime ore del mattino. La sua ospitalità è proverbiale ma....Ricordate anche che il Bonvi gli fece dono di un fucile della prima guerra mondiale, che il Guc detiene legittimamente in quanto ufficiale di complemento in congedo, e che periodicamente lubrifica!

sabato 26 giugno 2010

Tarallucci e Guccini

www.sansalvatoretelesino.com

Dopo la performance de I' Polli di Allevamento' che hanno proposto il teatro canzone di Giorgio Gaber, la Pro Loco di San Salvatore, domenica 27, all’Abbazia del Santo Salvatore sarà protagonista di una dedica a Francesco Guccini.

Nel corso della serata sarà presentato il volume di Rolando Giannetti edito da Guida: “In In cerca d’un porto: la canzone d’autore di Francesco Guccini”.

A tracciare il profilo artistico e umano del cantautore bolognese, insieme all’autore, ci saranno il giornalista Donato Zoppo e il professore Tonino Conte. Non mancherà l’omaggio musicale che è stato curato da Enzo Astarita e Ornella Cascinelli che hanno riarrangiato alcune canzoni come “La locomotiva” e “Canzone per un’amica”. La serata sarà accompagnata da “Mulsum et Crustulum”: vino e struppoli, come si faceva nell’antica Roma.

Tutto esaurito!


Ha fatto registrare un clamoroso sold-out il concerto che Francesco Guccini ha programmato per il prossimo 30 giugno: la serata, organizzata dal Comune, celebrerà i 70 anni del cantautore emiliano. Come riferisce l'agenzia ANSA, richieste di biglietti sarebbero arrivate da tutta Italia. L'artista, scherzando su tanto successo, ha dichiarato: "Il 30 giugno? Potrebbe piovere, o potrei non esserci e inviare un video messaggio. E comunque non sarà il concerto del mio compleanno. I 70 li ho già compiuti".

venerdì 25 giugno 2010

Guccini a Spilamberto

Un amico di vecchia data di FG, Lauro Venturi, racconta:

Un Guccini in grandissima forma parla per un’ora e mezza nella bella cornice della rocca di Spilamberto.
L’occasione è la presentazione del libro “Non so che viso avesse”, con l’ormai simbiotico Alberto Bertoni, anche lui in grande forma.
C’era anche una bella luna, non piena del tutto, come faceva notare il Maestro un po’ commuovendosi e un po’ ricordando “Guarda che luna, guarda che mare…” per sottolineare l’importanza, nella sua formazione, delle balere, nelle quali ha suonato all’inizio. Geniale poi il passaggio dalle balere a canzoni come Auschwitz.
Un Guccini con voglia di parlare, che si commuove, sempre con il riserbo che contraddistingue quelli come lui, si intende, pensando a sua madre (ha letto alla fine le due pagine proprio a lei dedicate) e a Renzo Fantini, consigliere ed amico.
Un bel inserto su come vengono scelte le scalette per i concerti, su come sarà quella del prossimo autunno, con il sicuro rientro di “Canzone dei 12 mesi” e forse de “Il pensionato” e “Il frate”: “Cosa volete mai, La locomotiva e Canzone per un’amica ci vogliono, così come Il vecchio e il bambino, Auschwitz e Dio è morto, poi non ne restano mica tante”.
Esilaranti i ricordi dell’esame alla Siae, la cui domanda era stata fatta da un suo amico (Guido De Maria, scommetterei): iscritto come melodista non trascrittore, perché non scriveva musica.
Si è parlato dei dialetti, dell’infanzia a Pàvana con il babbo ritornato dal campo di concentramento quando Guccini aveva circa cinque anni: “Quando sono nato lui non c’era, ma mia mamma per fortuna sì”. Rispunta anche la pigrizia nello scrivere canzoni: "Ne ho tre, l'ultima però non la faccio perchè poi finisce subito su You Tube": se sapesse che "Il Pagliaccio" e "Su in collina" le ho messe io per primo, appena venuto a casa dal concerto di Porretta...
Tutte le cose dette questa sera le avevo già sentite e lette diverse volte, ma c’era un timbro particolare che ha reso tutto gradevole ed emozionante.
E adesso il concerto del 30, a Modena, voluto dal mio amico Assessore Roberto Alperoli, sul quale Guccini ha ironizzato definendolo un concerto come gli altri. Ha fatto battute sul back stage che sarà di oltre cento persone, ha ironizzato sulle condizioni poste dalle grandi star agli organizzatori, mentre lui si fa preparare il catering da un genovese (Michele), quasi un ossimoro.
A Modena, ci saranno grandi sorprese!

giovedì 24 giugno 2010

Michele Serra: Guccini è una roccia!

Guccini il cantastorie
di Michele Serra
L'Espresso

Un grande poeta. Un innovatore attaccato alla tradizione. Idolo di diverse generazioni. Ritratto dell'artista modenese
(14 giugno 2010)
Quando saranno finalmente stabiliti i doverosi nessi tra letteratura e canzone, Francesco Guccini sarà tra i tre o quattro classici da studiare. I cantautori, di fronte a questo genere di discorsi, in genere si ritraggono, non si sa se per imbarazzo o perché gelosi di una forma espressiva effettivamente non comparabile con altre, non solo parola né solo musica. Ma in molti casi è il corpus della loro opera a inchiodarli: raccolti su carta, i versi di Guccini reggerebbero la dura prova della lettura "nuda" anche senza il formidabile supporto degli accordi, della ritmica e della melodia. Magari non un Meridiano (non ancora) ma un robusto cofanetto gucciniano, nello scaffale della poesia italiana del secondo Novecento, occuperebbe il suo legittimo spazio.

Guccini, del resto, era di quelli che sui banchi di scuola, quando scoprivamo i cantautori, giravano anche trascritti su foglietti volanti (come De André, come Dylan, come Brassens tradotto), e il disco a 33 giri era il coronamento di un approccio tecnicamente letterario: il testo della "Locomotiva", pazientemente ricopiato in stampatello nonostante la lunghezza fluviale (Guccini è il contrario di un epigrammista), lo lessi in terza liceo prima di sentire la canzone in casa di un amico anarchico estasiato, che maneggiava il vinile di "Radici" come si fa con i testi sacri.

Guccini è prima di tutto parola, parola pronunciata con quella involontaria solennità che gli deriva dalla voce tonante, dalla erre arrotata. La voce di un narratore fieramente premoderno, antiermetico, che non esita a prendersi il tempo per i dettagli, gli aggettivi, gli incisi. La fretta non appartiene all'uomo, che è un montanaro degli Appennini pieno di cura per la conversazione, il vino, il convivio, la lettura e la scrittura, né all'artista, che costruisce le sue storie come se il ritmo della televisione non lo tangesse.

Questa orgogliosa "antichità" della sua arte è un lussuoso paradosso: nei primi anni Sessanta, quelli del beat e della "canzone di protesta", il ragazzo Guccini fu tra i veri innovatori della scena italiana. Nei suoi primi pezzi c'erano Salinger e Kerouac, la bomba atomica, l'irruzione deflagrante dei temi sociali. Fu autore scelto dei primi "capelloni", più americano che francese, e in quegli anni più avanti di parecchio rispetto a grandi classici della canzone italiana moderna come Paoli, Bindi, Tenco. È il solo, tra i grandi cantautori italiani, a venire dal beat, a formarsi, tra Modena e Bologna, negli anni così cari a Edmondo Berselli, quelli di una rivoluzione dei costumi e degli spiriti non ancora imbragata nell'ideologia.

Da lì, Guccini si defila e si concentra sulla propria poetica, che è soprattutto narrativa. Storie di amori, di ubriachi, di antenati, di miti popolari, ricognizioni nella storia sociale e nella geografia, luoghi della memoria, l'intimismo dei cantautori che si fa da parte per raccontare soprattutto gli altri. La definizione di "cantastorie", che in genere si spende un po' a caso per parecchi dei nostri cantautori, nel suo caso è più calzante che in altri. E il fascino unico della sua narrativa in versi e musica sta in un anacronismo quasi inspiegabile, e potentissimo: Guccini scrive e canta come se il turbine dell'epoca, la petulanza delle mode, nemmeno lo sfiorasse. Proverbiale, e amatissimo dai fan, il manifesto pluridecennale che lo accompagna quando fa i concerti (pochi, lui è pigro e memorabile fu la sua risposta all'invito di una trasmissione televisiva: "non posso, sto finendo un puzzle"). Lui con la barba nera, sgranato, potrebbe essere l'immagine di un brigante appenninico o di un hippy, di un fuori-corso sessantottino o di un monaco ortodosso, è comunque un marchio di immutabilità che indica il miracolo (perdurante, e ormai più che quarantennale) di un artista anziano che raduna sotto il palco una manciata di generazioni, compresi i giovanissimi che cantano a memoria canzoni scritte quando nascevano i loro padri: come se da ragazzini noi avessimo cantato Rabagliati o Perry Como o i Cetra.

Come capita solo ai classici, questa apparente immobilità è vincente. Sbuca dalle macerie di ogni moda morente, di ogni tendenza dimenticata, con la forza di un solido, di una costruzione paziente e non deperibile. Guccini è una roccia. In un paese fragile, emotivo, suggestionabile, Guccini è un padre vero. Gli amici lo chiamano "il Maestrone": mai soprannome fu più calzante, anche nell'affettuosa derisione di un uomo grande e grosso che è anche un grande, magistrale artista.

Marco Gherardini,, detto Poiana

di Claudio Cumani Il Carlino

PAVANA (Pistoia), 12 giugno 2010 - IL MAESTRONE sospira: «Tutta questa frenesia per i miei 70 anni mi dà ansia, mi vergogno. Vorrei starmene in disparte, far finta di niente». In vista della data fatidica (lunedì 14 giugno), a Francesco Guccini stanno arrivando da giorni telefonate, biglietti, messaggi di auguri. Ma lui si schermisce: «No, il giorno del mio compleanno non faccio proprio nulla. Sto qui, a Pavana, spero in santa pace. Ho scoperto che alcuni amici mi volevano fare un’improvvisata, ma sono riuscito ad annullare tutto».

In realtà c’è un concerto a fine mese nella piazza Grande della sua Modena annunciato come festa di compleanno. «Ma non è vero — ribatte un po’ stizzito— E’ una esibizione come tutte le altre e soprattutto non è, come qualcuno va raccontando in giro, il mio ultimo concerto. Ci mancherebbe... Lo dico perché magari quella sera il pubblico si aspetta chissà cosa». E tanto per essere più chiaro snocciola le date della prossima tournée autunnale (con scaletta rinnovata): l’11 settembre Torino, il 6 novembre Roma, il 26 novembre Pistoia, il 10 dicembre Milano. Intanto Francesco lassù in montagna («sì, ho la macchina ma non la patente, guida la mia compagna») passa le giornate come il protagonista di una novella cechoviana: «In questo periodo non ho voglia di far niente, trascorro il tempo per lo più leggendo. In estate è un peccato lavorare».

Ma la noia è bandita: «La mattina c’è da andare al lago di Suviana, dove ho la canoa, a prendere il sole. Nel pomeriggio ci si riposa e la sera arriva sempre qualche amico per cenare. E poi ho tante altre cose da fare, anche se non sono un gran contadino: devo guardare l’orto e curare le piante attorno a casa. Peccato che non sia più il camminatore di un tempo».


La città non le manca?
«No, Bologna è cambiata e le compagnie si sono frantumate. In fondo la vita qui a Pavana non mi sembra diversa da quella della mia infanzia, anche se allora non c’erano riscaldamento e acqua corrente. L’unica cosa che devo avere vicino è una libreria».


Da accanito lettore su cosa si è soffermato recentemente?
«Sugli ultimi gialli italiani di Camilleri e Carofiglio. Ho molta curiosità verso il genere: la mia attenzione per questa letteratura è aumentata da quando ho scoperto che un tempo gli scrittori italiani camuffavano il nome con pseudonimi stranieri per farsi pubblicare»


Anche lei sta scrivendo un giallo con Loriano Macchiavelli?
«Sì, ma le cose vanno a rilento perché abbiamo avuto qualche difficoltà. Immagino che il libro uscirà il prossimo anno. C’è un nuovo personaggio, un ispettore forestale giovane, sfrontato e guascone a cui ho dato il nome di un amico del paese, Marco Gherardini detto Poiana. E’ una storia contemporanea che si svolge in montagna. Con Loriano lavoriamo come sempre: ognuno di noi scrive un capitolo che ci scambiamo».


E il tanto sospirato nuovo disco come va?
«Anche lì non ho fatto grandi progressi: ho tre canzoni pronte e due le faccio in concerto. Una si intitola ‘Su in collina’ ed è la versione italiana di una poesia bolognese di Gastone Vandelli, nell’altra, ‘Il testamento del pagliaccio’, si parla di un uomo sconfitto da tutte le cose da cui metaforicamente veniamo uccisi tutti noi in questo Paese. Ma in realtà, se avessi pezzi nuovi, non li farei dal vivo per non finire subito su Internet».


Settant’anni sono ovviamente occasione di bilanci. C’è stato un periodo più importante di altri nella sua vita?
«No, è venuto tutto in maniera naturale e senza forzature. Mi sono trovato a fare un mestiere che non mi sono cercato e che non immaginavo di fare quando ho iniziato a collaborare con l’Equipe 84 e i Nomadi o quando cantavo fra gli studenti all’osteria delle Dame a Bologna. Nella mia vita non ci sono state svolte o cambiamenti epocali».

Il più grande dolore?
«La scomparsa recente di Renzo Fantini che non era solo il mio manager ma un vero amico. La sua morte è stata così rapida che mi ha lasciato senza fiato. Ci conoscevamo dal ’74 e di strada insieme ne abbiamo fatta molta».

Che effetto fa essere nato lo stesso giorno di Che Guevara?
«L’ho scoperto da poco. L’anno scorso in questo periodo ero a cena sul Monte Amiata quando per scherzo ho fatto un brindisi ‘a una persona nata il 14 giugno che il mondo non dimenticherà mai’. Tutti mi hanno guardato stupiti, pensando che parlassi di me. ‘A Che Guevara’, ho urlato alzando il bicchiere»

Un’ultima cosa: Guccini, in confidenza, lei guarda la televisione?
«Sì, i notiziari, i film, l’attualità... Ho anche la parabola che però non si attacca alla mia vecchia tv. Beh, insomma, dico la verità: sono mesi che devo comprare una nuova televisione ma proprio non mi decido a farlo».

lunedì 14 giugno 2010

14 giugno 2010


Parafrasando la pubblicità del pennello cinghiale: "Non occorre un grande regalo per il compleanno del grande Maestro". Nella foto: 1998 Guccini apre il regalo degli amici "Cazzari" de Roma. Il "grande regalo", una volta scartato, si palesa come "il viagra dei poveri", una banalissima bottiglia di Vov.

domenica 13 giugno 2010

"Quel millantatore di Vince Tempera..."

Intervista letteraria del febbraio 2009. Si passa da Spoon River
al clima gelido di Pàvana, dall'idealismo di Michele Serra all'effigie in pietra
sul caminetto. E si sottolinea che il maestro Tempera si perde spesso nel suo telefonino.

Auguri Francesco! 70 anni!!

per l'occasione:

Numero speciale di Vincenzo Mollica

martedì 8 giugno 2010

Col suo buffo montone orientale

Guarda con quali mezzi (che neanche i Kiss!) si muoveva per concerti Guccini negli anni settanta!.


Con Repubblica e Espresso

9 cd e 1 dvd, ogni settimana insieme a Repubblica e Espresso, tutte le canzoni di Guccini in cofanetto, con testi e anedottica.

Gino Castaldo intervista Guccini a Pàvana.

I settant'anni di Guccini
"E pensare che non volevo scrivere"
Incontro con il cantautore che il prossimo 14 giugno festeggia il compleanno. "Già a 50 anni mi resi conto che mi restava da vivere meno di quanto avevo vissuto"
dal nostro inviato GINO CASTALDO

I settant'anni di Guccini "E pensare che non volevo scrivere" Francesco Guccini

PAVANA - Arrivare a Pavana, la leggendaria, il luogo prescelto da Francesco Guccini per il suo buen retiro, da almeno dieci anni, è come attraversare una selva di profili scoscesi e strade morbidamente tortuose. Da lì, Guccini torreggia, settant'anni portati con orgoglio da montanaro. "Ma attenzione, non li ho mica ancora compiuti" borbotta col suo burbero sorriso, "manca ancora qualche giorno al 14 giugno". Nell'ingresso della casa un grande tavolo contiene di tutto, vecchi fumetti, fogli sparsi, libri, riviste. Dalla cucina, di sapore antico, si vede una verdissima valle che degrada con dolcezza: "In fondo questa è la vera differenza tra me e la maggior parte degli altri cantautori" spiega, "De André, che era mio coetaneo, veniva dalla buona borghesia genovese, gli altri comunque da un ambiente cittadino, urbano, io vengo da qui, dalla campagna, dalla montagna".

A proposito di De André. Eravate legati?
"Sì, avevamo anche progettato di fare qualcosa insieme, magari un tour, lui voleva, anche se un po' si scherniva, diceva: ma no tu parli tanto nei concerti, io per niente, ma l'avremmo fatto, avevamo voglia. Poi i manager che per natura sono sempre più sospettosi, si misero di traverso. Io Fabrizio l'avevo conosciuto, a Bologna, nel 1967, avevamo amici comuni, mi ricordo che io gli cantai Per quando è tardi. Lui invece un po' si vergognava, poi cantò molto. Da allora ci siamo sempre sentiti, da qualche parte ho mille lire con la sua firma perché ho vinto una partita di scopa testa a testa. Lui era più legato ai francesi, a Brassens, io più a Dylan. Il primo disco, Freewheelin, me lo passò uno dell'Equipe 84, ma io all'inizio non ero così interessato a scrivere, non ero neanche iscritto alla Siae. Il primo disco non lo firmai neanche, i pezzi erano firmati "Pontiak-Verona", Auschwitz era firmata "Lunero-Vandelli", ma erano tutte mie. Poi le abbiamo corrette, ma non tanto tempo fa".

I settant'anni arrivano come una campana dolente. Ci si sente più soli, nel senso che molti amici non ci sono più?
"Per forza. Da poco è scomparso Renzo Fantini, mio grande amico, è stato da sempre il mio manager, era carismatico, e poi era onesto, in un ambiente che diciamo pure non brilla per questa qualità. Lui fu folgorato come Saulo sulla via di Damasco. All'epoca lavorava con Nilla Pizzi, Sandro Giacobbe, e per caso Victor Sogliani, dell'Equipe 84, era il 1975, mi disse 'ma tu ce l'hai un manager?'. Io no, non ce l'avevo, ma non facevo concerti. Venne Renzo con Bibi Ballandi, da lì decise di lavorare solo con i cantautori, si separò da Ballandi, e così cominciò la storia. E comunque già a cinquant'anni mi resi conto tragicamente che gli anni che mi restavano da vivere erano meno di quelli avevo già vissuto, figurarsi ora. Ma non ci penso tanto, solo quando sento dei limiti. L'altro giorno sono andato al mulino, era la casa dei miei nonni dove abitavo da piccolo, c'è una mulattiera che scende giù, guardavo i sassi, attento a non inciampare. C'è il fiume, una volta lo passavo saltando di sasso in sasso, ora certo no. C'è anche il lago, d'estate si stava là, lo attraversavo tutto e tornavo indietro, ora faccio sì e no cinque metri, ma ancora mi tuffo, anche se l'acqua è gelida. Però notavo una cosa, da giovane facevo i concerti seduto, ora li faccio in piedi, sono proprio un coglione..."

E perché da seduto, un tempo?
"Perché ero abituato a non fare concerti veri e propri, ho cominciato a suonare in pubblico all'osteria delle Dame, quindi stavo seduto, poi arrivò Flaco, eravamo solo in due, e stavamo seduti".

Vecchioni ha scritto che la sostanza delle sue canzoni è il dubbio.
"Non sempre, ma è vero che nelle mie canzoni ci sono molte domande, ma non in tutte, vedi La locomotiva. Poi sì, in canzoni come Il pensionato, e Shomér Ma Mi Lailah, un inno al dubbio. Di certo ora so solo che non sono più giovane. Ho delle canzoni nuove, una è l'ennesima Canzone di notte, la numero 4, credo, e lì un po' parlo dell'età. L'anno scorso feci un concerto a Montalcino, il 13 giugno, la sera dopo festeggiammo, presi la parola per un brindisi, dissi: 'A una persona nata il 14 giugno che nessuno dimenticherà...'. Tutti pensavano che parlassi di me, e invece conclusi: 'a Che Guevara, che è nato il mio stesso giorno'".

Dopo 45 anni è cambiata la sua visione della musica?
"No, io la vedo ancora così la canzone: un signore che si mette lì, ha delle idee per la testa e vuole manifestarle. Poi per carità ci sono prodotti artigianali ottimi, ma io parlo delle canzoni dei cantautori. Oggi sento molte canzoni, non dico brutte, ma inutili, che forse è peggio. Tempo fa dissi dei talent che in mancanza di altro poteva essere un'occasione per emergere, e tutti a dire: 'ecco Guccini apprezza questi programmi'. Mica vero, le case discografiche sono in crisi, ma pensa che io il primo disco Folk beat n.1, l'ho fatto nel 1966, ma il primo di un certo successo è stato Radici del 1972 e in mezzo ci sono stati altri tre long playing. Ora sembra essere tornati agli anni Cinquanta, c'erano belle voci, ma i testi a volte erano ridicoli, ora c'è più abilità, arrivano più preparati, ma non c'è niente dentro. Paoli anche quando cantava Il cielo in una stanza si sentiva che c'era qualcosa dietro, anche se era una canzone d'amore, De Andrè fece delle altre cose, ironiche, serie, io cantavo Auschwitz....

Ricorda quando l'ha incisa?
"Certo. C'erano ancora i tecnici col camice bianco, venne fuori questo signore anziano, o almeno mi sembrava allora, avrà avuto neanche 50 anni, mi disse: 'senta ma è lei che ha fatto questa canzone? Bene le do un consiglio, se vuole continuare a fare questo mestiere, allora cambi genere che con questa roba andrà poco lontano'".

(07 giugno 2010)