venerdì 9 dicembre 2011

Pieraccioni: Guccini trasformò un bambino triste in regista


Oggi su Repubblica Firenze Pieraccioni confessa a Roberto Incerti:
"La mia nonna andò in un negozio di dischi e chiese un disco
adatto ad un nipote di undici anni: le dettero "Via Paolo Fabbri 43" di Guccini.
Da allora è il mio album preferito. Adoro "Il pensionato", gliel'ho detto anche a
Francesco: è una canzone cinematografica, fatta di immagini, per me è stata
fondamentale per fare il regista.
Il mio primo concerto di Guccini lo vidi nel 76 al Parterre di Firenze,
seduto su una seggiolina di legno: altro che le norme di agibilità che ci sono oggi!
Mia mamma dice sempre: Leonardo, tu sei nato triste, meno male che sei diventato
allegro crescendo."

"Un altro giorno è andato. Dizionario delle cose perdute"

In uscita il prossimo febbraio a 10 euro, nella nuova collana "Libellule" di Mondadori

Dalle osterie fuori porta alle braghe corte che oggi nessun ragazzino è più costretto a portare, dal fumo libero nei cinema ai telefoni in duplex, dalla macchina da scrivere ai taxi verdi e neri che quasi nessuno ricorda più, dalle linguette per aprire le lattine agli odori - non ancora coperti dallo smog globale - che animavano ogni angolo delle città: con un poco di nostalgia, ma soprattutto con tutta l'energia e la poesia della sua prosa, Francesco Guccini rivolge il suo sguardo sornione su oggetti, situazioni, emozioni di un passato che è di tutti, ma che rischia di andare perduto. Un viaggio nella vita di ieri che si legge come un romanzo: per scoprire che l'archeologia "vicina" di noi stessi commuove, diverte e parla di come siamo diventati.

Opere di Leonardo Cannistrà

La Genesi - in versione teatrale

giovedì 1 dicembre 2011

Disco pronto, come i meloni a marzo!


GUCCINI, è pronto per l’ultimo concerto?
«Scusi?».
Sabato a Bologna, è stato annunciato da tempo.
«Che palle, ’sta storia del ritiro».
Allora non è vero?
«Mi fermo solo per un po’».
Hanno detto il contrario.
«Perché annunciare che Guccini smette fa notizia».
Sospende solo i concerti?
«Sì. Cosa crede, è una fatica stare due ore e mezzo su un palco. Alla mia età».
Ne fa una questione di età?
«Soprattutto. In miniera si fa molto più fatica ma si smette anche molto prima».
La abbiamo vista di recente a Mantova e sembrava in forma.
«Ma poi la stanchezza si sente. Dovrei essere in pensione da tempo. Si parla di andare in pensione a 67 anni, ne ho 71, dunque i conti sono presto fatti».

In effetti Ivano Fossati si è fermato prima.
«Ciascuno ha il diritto di scegliere di riposarsi».
Flaco il suo chitarrista resterà disoccupato.
«Penso anche agli altri. Flaco dice sempre che faccio pochi concerti. Mi dispiace».
Il nuovo disco è pronto? L’ultimo, “Ritratti”, è del 2004.
«Ho da parte le solite tre, quattro canzoni».
Quindi?
«È pronto come i meloni a marzo. Li mangia i meloni a marzo?».
Di solito no.
«Appunto».
Ma ora ci lavorerà?
«Certo proverò a scrivere qualche canzone. Non ho mai detto che starò a guardare fuori dalla finestra senza fare nulla.
“Fantoni Cesira” e “Il bello” sono del ’73 ma parlano di sesso per interesse. Le recupererà?
«Non mi sembra il caso. Funzionavano quando le ho scritte. Altre, per tutte “Il frate”, hanno una certa età ma le ho recuperate e sabato nel presunto ultimo concerto le farò».
Alfano, che non è proprio dalla sua parte politica, ha detto che è il suo cantautore preferito.
«Magari ha cambiato idea. Comunque mi auguro che chi mi ascolta lo faccia oltre alla fede politica».
E i ventenni ai suoi concerti?
«Ho una moralità ufficiale. Non ho mai trasgredito».
E i pugni alzati quando canta “La locomotiva”?
«Lì è un’altra storia. Quando si è in gruppo ci si lascia trascinare dall’entusiasmo. Vedo gente di destra che a quel punto alza il pugno».
Ha letto di Lucio Magri?
«Un gesto coraggioso. Non lo giudico dal punto di vista morale. Forse non gli interessava più nulla. O era vittima di una forte depressione».
Che sta facendo ora?
«Sono da poco rientrato a Pavana e mi si è fulminata una lampadina. Sto aspettando l’elettricista».
Vede gli amici montanari?
«Sì, a piccoli gruppi. La via Porrettana è lunga, ci sono tanti posti. Ma ho perso il rito delle carte».
Si è sposato ed è in clausura?
«Avevo già smesso prima. Comunque, mi piace osservare la commedia umana del gioco delle carte».
Era bravo?
«Sì, sapevo giocare. A riprendere oggi però mi sentirei un novellino di fronte a gente che non ha mai smesso da quarant’anni».
Si rimette davvero a scrivere?
«Certo, butterò giù parole sotto forma di canzone o prosa. Come le ho detto non farò il nullafacente».
Il prossimo progetto?
«Tra gennaio e febbraio uscirà un libro su oggetti che non ci sono più o non si usano più. Ci sto lavorando ma anche Internet oggi fa le bizze».
Giornata dura senza lampadine e con Internet claudicante.
«Ma è un autunno bellissimo, con colori meravigliosi e una temperatura che si sopporta bene anche a Pavana, sull’Appennino pistoiese».
In “Blackout” parla della corrente elettrica che riporta la vita di una casa in tempi remoti.
«La storia è più tragica. La corrente spariva davvero per ore. Bisogna arrangiarsi: senza frigo né tv, soprattutto senza riscaldamento».
Ha detto che il tempo è mite.
«Ma resta una mitezza da montagna. Non si fidi troppo».
Dunque sabato se ne torna a Bologna per l’ultimo concerto.
«Ancora? Lo scriva una volta per tutte: non mi ritiro, mi fermo un po’. Chiedo solo tranquillità».
fabrizio.basso@gmail.com per Il Secolo XIX
NELLA FOTO: GUCCINI A PAVANA TENTA DI SOSTITUIRE LA LAMPADINA BRUCIATA

giovedì 17 novembre 2011

Basta concerti, forse...

Dopo Fossati, lascia anche Guccini? "Sono stanco, basta concerti"
di MICHELE BUGLIARI per Repubblica
Fossati da poco ha annunciato di avere deciso di abbandonare l'attività discografica e i concerti. Ora arriva l'annuncio di Francesco Guccini che ha dichiarato di essere stanco dell'attività dal vivo, visti i suoi 70 anni e che molto probabilmente i suoi prossimi due concerti saranno anche gli ultimi.

Gli appassionati dei live del grande cantautore modenese, quindi, faranno bene a segnarsi queste due date: il 26 novembre, a Jesolo (Venezia) e il 3 dicembre, a Bologna, perché potrebbero essere le ultime. Gli anni passano e i grandi della canzone d'autore invecchiano, per tanto è anche naturale che arrivi la scelta di interrompere le attività concertistiche. "Mi esibirò a Jesolo e a Bologna - dice Guccini - e poi probabilmente chiuderò con i concerti". Insomma il padre de "La locomotiva" ci sta pensando seriamente ma la decisione non è ancora stata presa in modo definitivo.

Abbandonerà definitivamente il palcoscenico? "Forse, è probabile... Ma non ancora del tutto sicuro. Sono un po' stanco di fare concerti ma nel contempo mi piace ancora moltissimo. Il pubblico è sempre numerosissimo ed eccezionale. E' solo che faccio sempre più fatica. Forse ne farò qualcuno in meno di concerto. Forse farò un disco e lo presenterò con qualche esibizione. L'età suggerisce prima o poi di smettere. Non posso continuare sino alla fine. Diciamo che è una decisione in bilico".

Il padre della canzone d'autore però sostiene che anche se dovesse mettere la parola fine alla sua attività live non per questo smetterà di fare dischi. Ed è dal 2004 che i fans attendono un nuovo album, nonostante due canzoni inedite presentate negli ultimi tour. "Ora siamo a quota cinque canzoni nuove - afferma l'autore di Il vecchio e il bambino - e all'inizio dell'anno prossimo spero di poter entrare in studio per il nuovo disco".

Gli appassionati di Guccini è da anni che sperano invano di sentirlo cantare dal vivo L'avvelenata ma il miracolo non si compirà nemmeno nei due prossimi e forse ultimi concerti. "No, L'avvelenata - dichiara il cantautore - non è in scaletta. Abbiamo messo insieme una lista di brani con pezzi che non facevo più da tempo e poi con i classici. Ci sarà Lettera, Canzone per un'amica, La locomotiva, ma anche Canzone dei 12 mesi e Canzone per Piero".

(17 novembre 2011)

Un po' di enigmistica





la settimana prossima troverete le soluzioni nei commenti.

lunedì 7 novembre 2011

In uscita a gennaio il nuovo libro di Guccini.

Intervista di Mario Chiodetti

Il signor Francesco Guccini, di anni 71, potrebbe essere un tranquillo professore in pensione, assorbito dalle sue letture e dalla scrittura di qualche saggio su autori dimenticati, lo studio luminoso con il camino, i colori dell'autunno che riempiono le finestra di una luce dorata e malinconica.
A Pàvana sull'Appennino, niente è più lontano del manifesto, ormai epocale, in cui il Francesco cantautore, barba e baffi alla Che Guevara, compare da circa quarant'anni sui muri di mezza Italia, ad annunciare la tournée prossima ventura.
La «chitarra ed il fiasco», gli inseparabili musicisti, "Flaco" Biondini, Ellade Bandini e Vince Tempera, la "erre" ronzante che a volte sparisce nel canto, sono tutti amuleti di cui i fan vanno fieri, perché sembrano eterni e invincibili.
Francesco è di nuovo al mulino dei suoi vecchi, un rifugio da eremiti, scosso soltanto in estate dalle voci di qualche «becca aria», cittadini affamati di una natura che non conoscono, vista tutt'al più in televisione o nelle riviste patinate. Con i primi freddi se ne vanno anche quelli, e Pàvana ritorna un punto indefinito sull'Appennino, lontanissimo dai palasport, da luci e amplificatori, sciarpe agitate e qualche pugno chiuso.
Però... però Guccini proprio allora scende dalla montagna e ritorna nelle città, per un tour che probabilmente sarà l'ultimo o forse no, a cercare il contatto con il suo pubblico, quelli della sua età che lo ascoltavano da giovani e i giovani che ancora lo ascoltano in mp3, tra una fermata e l'altra della metropolitana.
Varese è l'unica data lombarda di questo giro di concerti, Francesco ci tiene perché sa che qui lo amano in tanti, anche quando ci butta in faccia i nostri difetti di provinciali pasciuti e un po' superficiali, più attenti alle vetrine che ai vetri rotti dei contestatori.
Guccini chissà dov'è, al telefono non risponde, quelli di Lunatik lo cercano perché l'appuntamento per l'intervista era mezz'ora prima, ma alla fine eccolo all'altro capo del filo, sornione.

Francesco, ma lì da voi c'è la luce? Qualche osteria, ritrovi dove far tardi?

Le osterie e i tarocchi li ho lasciati a Bologna, dove peraltro vado ogni tanto, quando devo parlare con il mio amico e coautore, Loriano Macchiavelli. Qui comunque ho diversi amici, ci si vede da me, si beve si parla.

Come passa le sue giornate a Pàvana?

Leggo, anzi rileggo molto. Cose assorbite da ragazzo che oggi riaffiorano, così sento il bisogno di riprenderle. Kipling, per esempio, mi sono riletto i suoi racconti e due romanzi. Poi scelgo libri di linguistica e storia locale, perfino gialli, quelli degli autori di moda, gli svedesi e i norvegesi, ma anche classici, come Nero Wolfe ed Ellery Queen.

Come è andato «Malastagione», scritto con Macchiavelli?

Molto bene, tanto che in Germania ne hanno acquistato i diritti. Con Loriano abbiamo in mente un altro romanzo sempre ambientato sull'Appennino, stavolta è una storia vera, capitata alla Guardia Forestale. Ma sarà cosa futura, ora abbiamo in lavorazione ognuno un proprio libro.

Il suo qual è?

«Un saggio sugli oggetti che non ci sono più, il telefono a muro, per esempio, che una volta era nero e appeso di fianco alla porta d'ingresso. Uscirà a gennaio per Mondadori, sono riflessioni su cose che magari ritenevamo importantissime con gli occhi dell'infanzia, che tutto ingrandiscono.

(Leggi l'intervista completa sull'edizione cartacea de "La Provincia" di Como in edicola il 7 novembre)

domenica 30 ottobre 2011

martedì 25 ottobre 2011

Môrt in culéṅna

Môrt in culéṅna
di Gastone Vandelli
Mé, Cassio, Pêdro al Mòro, cla matéṅna,
såtta una naiv ch’la s inbianchèva tótt,
avêven da incuntrèr só la culéṅna
al fiôl dal Biånnd, ciamè da tótt “al Brótt”.
Al vänt l êra giazè e par la schéṅna
a sintêven di brévvid da tarmèr,
ai êra un fradd cunpâgn, só la culéṅna,
ch’as tulêva la fôrza ed respirèr.
E caméṅna pian pian, che té caméṅna,
parché andèr fôrt an s psêva par cal żêl,
con nó avêven tôlt la carabéṅna
ch’l’êra cåntr ai tudéssc al nòster fêl.
Arivénn al incråuṡ d una stradléṅna
pr incuntrères con quall ed la Brighè
che insàmm a cl’ètra stanpa clandestéṅna
l avêva da cunsgnères l’Unitè.
Quand Pêdro as farmé ed bòt, tótt agitè
«Cunpâgn – al déss – a m sént giazèr al côr,
a n vdî là in fånnd, lighè a cla ramè?
Par Dío, l é ló, l é al Brótt ch’l é là ch’al môr!».
Nó a n capénn pió gnént e żå, d vulè,
tótt quant fén a cal pónt, in cal stradlén
dóvv ai êra al Brótt che l êra sfigurè
dal bòt ch’i i avêven dè chi asasén.
L êra dschèlz, sänza giâca, ne capèl,
nûd fén ala zintûra e lighè al man
l avêva un’âsa ed laggn fâta a cartèl
con scrétt "Quassta l’é la fén pr i partigiàn!".
Dîr quall che nó a pruvénn in cal mumänt
an s pôl, cunpâgn, an s pôl, cardîm a mé;
ai êren tótt quant fòra ed sentimänt
davanti a cal cunpâgn ardótt acsé.
Dåpp avair maledàtt e avair zighè,
a stachénn cal dṡgraziè dala ramè
e só la naiv, cunpâgn, avän żurè
ch’i arénn paghè cla môrt, ch’i arénn paghè!
E pò a suplénn al Brótt só la culéṅna
e só la bûṡa mé a i mité un bastån.
Cassio al tiré dû cûlp ed carabéṅna,
ûltum salût ed tótt al batagliån.
Col côr asrè a s aviénn par cla stradléṅna
che la purtèva al cmand dal batagliån,
pian pian, såtta ala naiv, in cla matéṅna,
turnànd só i nûster pâs con cl’âsa in man.
Quand a fónn arivè ala puṡiziån
i se dmandénn la stanpa clandestéṅna;
Cassio al mustré al cartèl con una man
e Pêdro al sgné cal pónt só la culéṅna.
Al cartèl al pasé da man a man,
la naiv la caschèva féṅna féṅna,
in gran silänzi, tótti i partigiàn
i guardénn cal bastån só la culéṅna.

venerdì 30 settembre 2011

Il ritratto di FG di Emiliano Liuzzi per il Fatto Quotidiano

Quando gli hanno raccontato che i giovani del Pdl lo adorano quasi quanto Lucio Battisti e molto più di quel comunista di Francesco De Gregori mica si è stupito. Magari se l’è sghignazzata, perché in fondo è sempre stato attratto, come scrive Massimo Cotto, da tutto ciò che divide e che unisce, dalle dogane e dalle confluenze, dai confini e dagli incontri. Ma non si è stupito per niente. “Se i giovani di destra mi amano”, dice al fattoquotidiano.it, “la cosa è del tutto involontaria. Su questo non c’è dubbio”. E a Vanity Fair ha ribadito: “Sono innocente”.

Taglia corto, perché all’uomo – un montanaro di pianura, nato a Modena, diventato adulto nella Bologna simil rive gauche degli anni Sessanta e Settanta, ora in ritiro a Pavana, il paese della sua famiglia lungo la Porrettana, pochi metri più in là nel confine toscano, ma dove ancora si parla un dialetto molto emiliano – non piacciono, per quanto possa sembrare, le contrapposizioni. Lo incuriosiscono i giovani che lo vanno a vedere ai concerti (“spesso succede che non voglia smettere di suonare, portarlo a casa è un’impresa”, dice sua figlia Teresa), ma non ha mai raccontato di provare particolari emozioni quando alzano il pugno come a una manifestazione del Pci berlingueriano e si mostrano in t-shirt rossa con falce e martello.

Ha scritto e cantato di Carlo Giuliani, Silvia Baraldini, Ernesto Che Guevara, ma non sono queste le canzoni che hanno fatto la sua storia musicale. E’ vero, c’è La Locomotiva, anno di grazia 1972, tredici strofe scritte in mezz’ora, quella che Sergio Staino descrive come la più bella ballata di sempre, perché c’è “tutto il secolo in sintesi: il mito del progresso, l’anarchia, i fantasmi e le urgenze di un’epoca pulsante”, la storia del fuochista anarchico Pietro Rigosi che a 28 anni, il 20 luglio 1893, saltò su una macchina a vapore con l’intenzione di andare a schiantarsi contro un treno di prima e seconda classe, ma finì per saltare lui stesso deviata la sua corsa in un binario morto. E’ la canzone con cui chiude i concerti da diversi anni, ma è ancora la consuetudine a fregarlo. Per quanto la ballata sia davvero un capolavoro di sintesi e attualità, non è dichiaratamente nessuna bandiera. Anche perché Guccini non fa canzoni politiche, sarebbe riduttivo, offensivo e inesatto affermare una cosa del genere. Piuttosto, il maestrone, tocca corde inesplorate. Canta le nostre miserie quotidiane. Senza colori, anche se è uomo di sinistra, stupito e deluso da questa sinistra.

Pare comunque difficile immaginare un giovane cresciuto a bandiere tricolore, il giro di “do” alla Apicella e le convention di Publitalia, che canta la bomba proletaria, che illuminava l’aria, la fiaccola dell’anarchia. Ma lo hanno detto loro, mentre si entusiasmavano ad Atreju per un discorso di Alfano o un libro di Stefano Zecchi: la nostra colonna sonora? Battisti. E Guccini.

Amato dalla destra, apprezzato da una certa Lega basso padana, idolatrato dalla sinistra. Un destino al quale non tiene per niente: neppure un paio di settimane fa, sempre al fatto.it, ha detto che se dovesse scegliere un leader della sinistra direbbe Rosy Bindi, che tutto può sembrare, meno che una rivoluzionaria da manifesto.

Ma Guccini è così. Non è un caso che a Bologna, dove lo considerano illustre quasi alla pari di Marcello Malpighi o Guglielmo Marconi, lo chiamano ancora il maestrone. “Un barone”, dicono gli amici. Capace di divorarsi le vecchie strisce dei Peanuts e Charlie Brown con lo stesso metodo con cui studia Jorge Louis Borges. L’unica persona, Guccini, che può citare a memoria la Divina Commedia come fa Roberto Benigni. Con un vantaggio: se metti allo stesso tavolo Guccini e Benigni a inventare ottave popolari, metrica formata dai primi sei versi a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata, cose da Ludovico Ariosto o Torquato Tasso, ne uscirà vincitore sempre Guccini. “Benigni”, racconta il maestrone che dell’attore è amico da una vita, “alla fine scade nel volgare. E non è permesso in una competizione di poesia che si rispetti”.

Questo è Guccini, capace di curvare le sopracciglia quando parla di storia e della battaglia tra la marineria bolognese e quella veneziana vinta inaspettatamente dalla ciurma di Porta Lame, serioso quando spiega il percorso del Limentra tra gli Appennini, guai a chiamarlo torrente, anche se lo è, entusiasta nel raccontare come si fa a Pavana la conserva di pomodoro. Ma sarcastico e assolutamente disinteressato nel comprendere quanto, come e perché i giovani berlusconiani lo amino. “E’ una cosa involontaria”.

lunedì 12 settembre 2011

Guccini e Macchiavelli al Festival di Mantova


da RepubblicaBologna
Macchiavelli si finge intimidito da un migliaio di spettatori, e fa cominciare Guccini. Ripercorrono la loro storia di coppia letteraria, da quando il cantautore propose la traccia di una storia ambientata tra i minatori al giallista. Storia che diventò poi Macaronì.

gucmac1Come nasce un loro libro? Il dialogo sembra uno sketch. Guccini: «Loriano ha una trama per il prossimo giallo. Nasce da una storia vera, e insieme costruiamo la struttura e i personaggi». Macchiavelli: «nel giallo il lettore si muove su come l’investigatore interpreta gli indizi. Nella stesura capita che le cose cambino: l’assassino, i nomi». Guccini: «scrivere un giallo è divertente. A volte chiamo Loriano e gli dico: lo ammazziamo? Lui: sì, lo impicchiamo? Io: no, non mi basta! E magari qualcuno ci ascolta e ci guarda con sospetto…»

Parlano di Malastagione, dei luoghi dell’Appennino, e raccontano anche degli Elfi. «Quelli li ha visti solo Francesco!» «Sono persone che vivono dagli anni ’70, senza luce e senz’acqua, coltivano la terra e allevano animali. Non si sa quanti siano, anche perché cambiano. D’estate sono molti, d’inverno meno. Si sono chiamati Elfi per omaggiare Tolkien. Hanno anche bambini, che vanno a scuola e nell’intervallo leggono libri, ma la sera passano dal bar del paese e rimangono incantati dalla televisione».

«Con Santovito abbiamo raccontato storie dell’Appennino del passato. Con questo romanzo volevamo raccontare quelle d’oggi. Abbiamo creato un altro personaggio. L’idea di un figlio di Santovito non ci piaceva. Abbiamo scoperto che la Forestale può indagare come altre forze dell’ordine. Così abbiamo scelto una guardia forestale, Poiana», dice Loriano, e Francesco aggiunge: «e loro sono stati felicissimi. Ci sono fiction su tutti, finalmente anche su di loro!»

L’unica scena di sesso l’ha scritta Guccini. «Lui ha più esperienza», scherza Macchiavelli. «La verità è che è molto difficile scrivere di sesso, e Loriano me l’ha rifilata!» Insieme però trovano le parole dell’Appennino, quelle dialettali, che si trovano nel testo, e descrivono i luoghi, o meglio li inventano. «D’estate ci sono persone che salgono a Pavana e mi chiede della Ca’ Rossa. Non esiste! Alcuni vengono a cercare la porta verde di mio zio Amerigo, quello della canzone. Non esiste più!», ride Guccini.

Ma le storie restano, e c’è spazio anche per ricordare il fumettista Bonvi e il musicista Victor Sogliani. Guccini racconta di quella sera in cui, tanti anni fa, fecero uno scherzo a Victor: «gli avevamo fatto credere che Bonvi fosse diventato un lupo mannaro, e uno aveva anche finto di essere una vittima, uscendo dal bosco. Victor era spaventato, ed era corso alla polizia, per denunciare che il suo amico era diventato un lupo mannaro… e quelli avevano capito un vampiro… Il giorno dopo era sui giornali!»

lunedì 22 agosto 2011

21 agosto Andrea Scanzi intervista Guccini

21/8/2011 - L'ESTATE DEL PRIMO AMORE

Andrea Scanzi intervista Francesco Guccini

Il cantautore: la prima cotta a 12 anni, quanti sbagli. Poi tante altre storie, positive e negative. Sono cambiato.


Ecco l'intervista uscita ieri su La Stampa, all'interno della rubrica "L'estate del primo amore".

Il Maestrone ha il tono burbero, sempre in bilico tra spigolosità ostentata e simpatia ruvida. Più la seconda. Settantuno anni, Francesco Guccini si è sposato la seconda volta ad aprile. Vedendo l’assembramento di fotografi davanti alla sala comunale di Mondolfo, il paese natale della moglie Raffaella Zuccari, rispose così a un reporter che gli diceva buonasera: «Buonasera un paio di palle!». Venne a tutti da ridere. Anche a lui, forse. Eppure l’amore, Guccini, l’ha cantato spesso. Soprattutto quello tormentato, incompreso, sul punto di finire. Da Vedi cara («è difficile capire se non hai capito già» 1970) dedicata alla prima moglie Roberta, a Canzone delle domande consuete («Tu lo sai, io lo so, quanto vanno disperse, trascinate dai giorni come piena di fiume tante cose sembrate e credute diverse, come un prato coperto a bitume» 1990). Ma anche passione travolgente come Vorrei («Perché non sono quando non ci sei» 1996) dedicata alla moglie Raffaella. E non manca nel suo canzoniere un amore estivo (da Canzone per Piero «Poi quell’amore alla fine reale, tra le canzoni di moda e le danze» 1974).

Il primo amore se lo ricorda?
«Avrò avuto 12 anni e sbagliai tutto. Ce ne sono stati tanti altri, di amori. Positivi e negativi. Il Guccini innamorato è cambiato molto, negli anni».

E a un certo punto ha scritto Farewell («Non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d’estate con qualcosa di fragile come le storie passate» 1993): è dedicata ad Angela, la madre di sua figlia Teresa, giusto?
«E’ la storia di un amore che finisce. La feci sentire alla donna che mi aveva ispirato. Alla fine, freddamente, mi disse: “E ora che dovrei fare, piangere?”. Tornai a casa e gliene scrissi un'altra: un’invettiva, Quattro stracci ».

Quella in cui l’autore è «fiero del suo sognare» e la donna «casta che sogna d'esser puttana». Oltre che sognatore, Guccini è ancora senza patente e ansioso?
«Pure meteoropata, se è per quello. Ma soprattutto sono un ansioso. Quando prendo il treno da Porretta Terme a Bologna, arrivo sempre un’ora prima. C’è solo quello, impossibile sbagliare. Io però, ogni volta, chiedo in stazione: “E’ quello delle ore ‘X’ per Bologna?”. Non lo chiedo mica per sapere a che ora arriva: lo chiedo per sapere se arriva».

Sì, ma Guccini come sta?
«Come vuole che stia: male. Guccini sta sempre male (lo dice ridendo, NdA). Dopo due ore di concerto sono morto, ho la schiena a pezzi»

Vasco Rossi si è dimesso da rockstar a neanche 60 anni. Lei ne ha qualcuno in più e fa ancora tournée.
«Macché tournée. Faccio scelte oculate, 4-5 serate l’anno. Di solito suono in palazzetti o capannucce. A Lucca il palco era smisurato e il camerino gigantesco: sembrava la tenda di Gheddafi. Pensavo arrivasse Berlusconi col bunga bunga. Vasco lo capisco, ma non ci monterei sopra un dibattito: non puoi cantare tutta la vita»

Ritratti, l’ultimo disco di inediti, è di sette anni fa. Dopo un po’ la creatività evapora?
«Ho scritto soltanto tre canzoni nuove. La chitarra in mano non la prendo quasi mai. E’ faticoso e neanche ho tempo. Ci sono le interviste, quelli che mi vengono a trovare. Vedrà che prima o poi passa un altro pellegrino, ogni giorno è così a Pàvana».

Se le cerca: quando un artista incide un album che ha per titolo un indirizzo di casa, Via Paolo Fabbri 43, dà l’indicazione implicita di andare a trovarlo. Forse si diverte.
«Non userei una parola così impegnativa. Mi diverto quando dormo il pomeriggio, quando vado a pesca. Il resto lo faccio perché è meno difficile che comporre canzoni. Scrivere libri, ad esempio».

Perché la canzone è complicata?
«Devi ridurre tutto a 3-6 minuti e c’è la metrica. Passare dalle 2-3 pagine iniziali al testo finale è dura e di voglia ne ho poca».

Visti oggi, voi cantautori sembrate tutti poco indignati e molto quieti. L’ultimo Gaber sostenne che la vostra generazione aveva perso.
«Abbiamo fatto quello che potevamo e non puoi rimanere tutta la vita sopra la barricate. Con Giorgio parlavamo spesso, ma non ebbi con lui il tempo di confutare quella tesi. Almeno ci abbiamo provato, le generazioni successive non lo so. Poi, è vero, non abbiamo portato il Sol dell’Avvenire».

Riascolta mai qualche suo disco?
«Per carità. Se qualcuno mette una mia canzone per farmi un tributo, gli intimo di toglierla subito. Non mi sopporto e in generale non ascolto quasi nulla. Mi incuriosiscono solo i rapper: sono molto distanti da me musicalmente, ma abbastanza interessanti».

Non crede, musicalmente, che a volte i suoi testi meritassero vesti più coraggiose? .
«Mah. Faccio quello che so fare e non è del tutto vero che abbia sempre suonato la stessa canzone. Una volta un collega - non le dirò mai quale - mi accusò di scrivere brani con due accordi. Gli risposi: “'Menomale che ci sei tu che ne usi tre”. Per raccontare storie non devi essere virtuoso, il blues ha tre accordi ma esiste da una vita».


venerdì 5 agosto 2011

6 agosto Bice Biagi intervista Guccini

Sabato 6 agosto, a Monteacuto nelle Alpi, alle ore 17.45 la figlia di Enzo Biagi parla con Francesco di "Malastagione".
Monteacuto è il paese di origine dei Guccini, che risultano registrati in quella parrocchia già dai primi del secolo XVI, successivamente scesi a Bologna, da dove verrano cacciati per abominevoli crimini, li ritroviamo poi mugnai nella zona di Porretta nel secolo XIX.
Monteacuto è a due passi da Pianaccio, il paese natale di Enzo Biagi.
Il giorno seguente, domenica 7 sarà la volta di Loriano Macchiavelli, che però parlerà dell'ultimo giallo di Sarti Antonio, storico "sergente" questurino sotto le due torri.

mercoledì 6 luglio 2011

Andrea Scanzi - La Stampa 5 luglio 2011

Riflessioni sul concerto di Lucca

“Trionfi la giustizia proletaria”. Il venditore di t-shirt, all’imbocco di Piazza Napoleone, mostra orgoglioso la strofa-chiave de La locomotiva. E’ la data di apertura del Summer Festival di Lucca e c’è Francesco Guccini. Rassegna molto internazionale, con tanto di maxischermi . Lui se ne accorge in ritardo: “E’ la prima volta che mi capita, sono emozionato. Se le telecamere erano quelle di Mediaset, non mi stava bene”.
Cinquemila persone per un concerto-ritrovo: un rito. Canzoni e chiacchiere, da imbonitore autoironico e consumato. Il Maestrone di Pàvana litiga con le formiche alate sul palco, rivela che “la scaletta l’ha scelta Bisignani”, se la prende con il processo breve nascosto nella manovra (boato della folla).
Potrebbe avere tutto un’aria revivalistica. Oltretutto Guccini suole tratteggiarsi come postumo in vita, senza più idee. Potrebbe, ma non accade. E’ una serata di festa, nonostante la consueta aura apocalittica dei primi brani (Canzone per un’amica, Noi non ci saremo, Il pensionato). Gran parte del pubblico è composto da giovani. Sanno i testi a memoria. Guardano con rispetto sacrale alla sindone, vecchiotta ma immortale, che ritrae un barbutissimo Guccini ai tempi – 1976 - di Via Paolo Fabbri 43.
Non è cambiata nemmeno la postura sul palco. Braccio sinistro appoggiato sull’asta del microfono, artista un po’ incurvito: l’istantanea di una carriera. Un bicchiere di vino qua e là (di fumare ha smesso, di bere no). Prima parte sulla memoria, poi canzoni d’amore, quindi di protesta. Due ore abbondanti. Gemme a profusione: Il frate, Autogrill, Farewell. I musicisti sono quelli di sempre, da Ellade Bandini a Flaco Biondini. Dediche, dal palco, ad amici andati: Victor Sogliani, Bonvi, Fabrizio De André. Pillole narcise su un “pensionato” finto-malato che continua a piacersi. Inviti a resistere, gli ennesimi: “Senza fare retorica, mi viene voglia di dire, ora e sempre: Resistenza” (altro boato). Il “piccolo baccelliere” imbraccia la chitarra solo all’inizio e alla fine, quando saluta i fans eseguendo Dio è morto e La locomotiva. Inni per una generazione che si credeva “preparata” e che forse ha perso. Ma almeno ci ha provato.
Francesco Guccini non incide una canzone nuova da sette anni (per altri, come Zucchero, ogni tanto si è concesso). Di concerti ne fa sempre meno (di film con Pieraccioni sempre più, chissà perché). Forse è stanco, forse l’ispirazione è fuggita. Eppure, a vederlo sul palco, meravigliosamente refrattario a qualsiasi rituale divistico, sembra in forma. Magari non meritevole del Nobel per la Letteratura, come chiede uno striscione, ma intatto. Coerente. Ancora in grado di tenere aperta l’ultima osteria di fuori porta. Da qualche parte, salvifica, fra la via Emilia e il west.

martedì 28 giugno 2011

sabato 25 giugno 2011

Live dal Kiwi di Piumazzo

Dopo trentadue anni ho finalmente scoperto che razza di posto era il Kiwi di Piumazzo

mercoledì 22 giugno 2011

30 giugno Pàvana premia Guccini


Alle ore 10, presso il comune, nella sede di Taviano (PT) il Sindaco di Sambuca Pistoiese consegna l'attestato di benemerenza a Guccini e altri paesani illustri.
Siete tutti invitati.

martedì 21 giugno 2011

Terra bassa, età alta

[In occasione del Festival Letteraltura di Verbania, Wu Ming 2 ha incontrato Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli per parlare di Appennini, vita in montagna, Resistenza, memoria, No Tav... Il risultato della chiacchierata è in questo lungo articolo, pubblicato ieri, 19 giugno 2011, sulle pagine de "La Domenica di Repubblica".]
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«I montanari sono come i marinai: girano il mondo, ma poi, quando viene il momento, tornano a casa». Parola di Francesco Guccini, che dalla storica via Paolo Fabbri 43, nel quartiere Cirenaica di Bologna, ormai da una decina d’anni si è trasferito a Pàvana, sull’Appennino pistoiese, vicino al mulino di famiglia di tanti libri e canzoni. Ci ho messo del tempo per trovare l’avita dimora, perché il numero civico che mi hanno indicato sta di fianco al vecchio portone, invisibile dalla strada, mentre sul cancello d’ingresso ce n’è un altro, tutto diverso. Che sia un’antica trappola per scoraggiare i forestieri?
Giù in città c’è chi sarebbe pronto a scommetterci, perché la montagna, vista da sotto, pare sempre un rifugio da eremiti, un nido d’aquila per misantropi e solitari, mentre nei sei romanzi che Guccini ha scritto con Loriano Macchiavelli, l’Appennino è sempre un luogo di incontri, una società complessa e nera quanto quella di pianura. Anche Macchiavelli ha vissuto l’infanzia da queste parti, poi è sceso in città e solo molti anni dopo è tornato a vivere in quota.
«A Bologna», racconta, «quando discuto con gli amici, va sempre a finire che mi dicono “T’î pròpi un muntanèr!”, dove per montanaro si intende conservatore, testardo. Ma io ormai non mi offendo più». Ci accomodiamo nella grande cucina con camino di casa Guccini, intorno a un lungo tavolo di legno, con una brocca d’acqua di fonte a riempire i bicchieri e la gatta Menica che ci zompa sulle ginocchia. Lo spunto iniziale della chiacchierata sono i luoghi comuni sulla vita in montagna, l’idea che avvicinarsi ai crinali significhi allontanarsi dalla società, ritirarsi in un guscio tranquillo fatto di boschi e solitudine.
Anche di Tiziano Terzani si sente spesso dire che «si ritirò all’Orsigna», a mezza giornata di cammino dalla Pàvana di Guccini, ma quando lo incontrai da quelle parti, non mi sembrò affatto un uomo ritirato. Si faceva chiamare Anam, cioè senza nome in sanscrito, ed eravamo per questo quasi omonimi (Wu Ming significa senza nome in cinese mandarino). Il vestito e la barba bianca erano quelli di un eremita, ma poi ti sedevi con lui a bere e ti rendevi conto che il grande giornalista era tutt’altro che lontano dal mondo. Ricordo un partigiano che aveva combattuto nella valle del Senio e quando parlava di quei mesi in montagna mi diceva che sì, sembrava di essere un gruppo di monaci guerrieri, in uno strano romitaggio fatto di rifugi e imboscate, però lo sapevi bene che stavi combattendo una guerra mondiale e che dal tuo angolo di montagna, grazie alla conoscenza del territorio, avresti dato una mano a buttare il fascismo nella pattumiera della Storia. «Qui a Pàvana», racconta Guccini, «la Resistenza c’è stata pochissimo. Gli americani sono arrivati nell’ottobre del ’44 e giù al mulino avevano messo quattro carrarmati. La mattina scendevano, sparavano qualche colpo e poi tornavano su, come se fossero stati in ufficio. I bossoli erano belli grossi, d’ottone: un paio li hanno pure intagliati e adesso servono come vasi sull’altare della chiesa».
Ma se in altri paesi d’Italia l’arrivo degli americani durante la Seconda guerra mondiale viene ancora ricordato come una specie di sbarco alieno, a Pàvana gli yankee erano già di casa: «Molti pavanesi sono finiti negli Stati Uniti a fare i minatori di carbone, e hanno fatto figli che noi chiamavamo Edi o Eri, ma poi scoprivi che i veri nomi erano Eddie e Henry. Gente che non aveva mai messo il naso fuori dal paese andava a imbarcarsi a Napoli, Genova, Le Havre». Guccini non lo dice, ma in questo profilo da emigrante è facile riconoscere lo zio Merigo di Cròniche Epafàniche, ovvero l’Amerigo della nota canzone, quello che «probabilmente uscì, chiudendo dietro a sé, la porta verde». E in effetti una porta verde c’è, affacciata sulla corte dove abbiamo parcheggiato, anche se «quella era la falegnameria di un cognato dei miei, bruciata dai fascisti. La porta di Amerigo stava giù al mulino, ma dire che era verde è come dir nulla, perché qua le porte erano tutte verdi, e quelle che non lo sono più, è per via del tempo o dei restauri».
«Appena arrivati in America», continua Guccini, «gli emigranti di Pàvana si compravano un revolver, tutti quanti, e spesso entravano nelle fila di un’associazione anarchica, la “Giordano Bruno”. Poi, quando il lavoro finiva, tornavano qua, e l’avventura oltreoceano la mettevano da parte, come un capitolo chiuso. Giusto il revolver, gli restava, e qualche soldo in tasca».
Eppure, a guardare i numeri, molti di questi montanari giramondo hanno voltato le spalle per sempre ai loro luoghi d’origine: dal 1911 a oggi, il comune di Sambuca Pistoiese, dove si trova Pàvana, è passato da 7.400 abitanti a poco meno di 1.500. «Mia sorella», commenta Macchiavelli, «quando venimmo via da Pioppe di Salvaro per andare a Bologna, disse che lassù non voleva più metterci piede. Aveva un odio viscerale per quella vita scomoda. Poi, col salto di un paio di generazioni e il riscaldamento a gas che è arrivato dappertutto, molte famiglie si sono decise a tornare». Negli ultimi tempi, infatti, altri comuni appenninici registrano un saldo demografico positivo e una febbre edilizia più contagiosa che in pianura. Coppie giovani, immigrati, professori col posto in provincia, invertono la tendenza allo spopolamento dei monti. come già fecero gli Elfi, a Sambuca, ristrutturando antichi borghi abbandonati, in cerca di un’esperienza di vita comunitaria e autosufficiente. «Sono passati trent’anni», racconta Guccini, «eppure la gente diffida ancora. “Eh, ma chissà i bimbi di chi son figli. Eh, le droghe. Ma poi non muoiono mai? Forse li seppelliscono e non li denunciano, come i cinesi…” È che i montanari, per quanto abbiano viaggiato, restano sempre guardinghi nei confronti dei forestieri. Pensa che di là dal torrente Limentra, una volta ci abitavano dei contadini, gente che coltivava la terra per sopravvivere, ma questo già li rendeva strani, agli occhi dei montanari, perché qui c’erano i castagni e di là le viti. Era gente più riservata, più raccolta: i contadini sì, che si attaccano alla terra. E infatti gli avevano pure affibbiato un soprannome dispregiativo, “gli spinaioli”, perché tra un campo e l’altro, su quel versante crescevano gli spini, i rovi, mentre nei castagneti si tiene tutto pulito, per facilitare la raccolta».
Faccio notare che allora c’è del vero, nell’icona popolare del montanaro scontroso, che non ama gli intrusi e le novità. «Dalle nostre parti», risponde Macchiavelli «quelli che arrivano dalla città li chiamano “becca aria”, perché hanno il culto dell’aria buona, vogliono respirare meglio, però gli manca la cultura della montagna. Il motto dei becca aria è vengo, vedo, compro, faccio come mi pare. Si costruiscono ville che sembrano transatlantici. Luci dappertutto, fari, allarmi e novanta chilometri al giorno in auto, per fare i pendolari con Bologna».
Chissà se i becca aria esistono anche sulle Alpi. Il fatto è che l’Appennino genera meno rispetto, mentre le Alpi, con le loro cime aguzze, incutono timore. La differenza tra gli animali totemici dei due territori parla da sé: quello dell’Appennino è il cinghiale, una specie di porco con le zanne che grufola nel fango, mentre le Alpi hanno la nobilissima aquila, il leggiadro camoscio. Le Alpi toccano il cielo, sono iperuranie e spirituali. L’Appennino è più basso, terragno, spurio.
Sarà anche per questo che sulle Alpi, in Val di Susa, il treno ad Alta Velocità non riesce ancora a sfondare le proteste e gli scudi umani, mentre sull’Appennino Tosco Emiliano lo scavo delle gallerie è andato avanti senza grandi opposizioni, finché non ci si è trovati di fronte a danni irreparabili. Strano, per una montagna la cui storia è legata a doppio filo con la Resistenza, che in quei boschi trovò l’arma in più per combattere il nemico. Del resto, solo una retorica da quattro soldi dipinge i valsusini come montanari ottusi, egoisti, che vogliono essere «padroni a casa loro». In realtà, la forza del movimento No Tav sta nella competenza diffusa e nell’aver saputo coinvolgere anche la gente di pianura. Nulla di simile è accaduto tra Bologna e Firenze, perché le due città voltano le spalle all’Appennino, lo considerano un ostacolo alla viabilità e semmai un luogo di villeggiatura “minore”, per anziani in fuga dal caldo. I bolognesi hanno sempre preferito Cortina a Porretta Terme.
«A interessarci di questi paesi siamo giusto un paio di sciagurati», osserva Guccini. «Abbiamo recuperato il dialetto, ma quello vivo non lo parla più nessuno. Questa è una zona di intrecci, di scambi e immigrazioni. Da bambino io non me ne accorgevo, ma molte pavanesi, in realtà, erano sarde, perché i nostri montanari andavano in Sardegna a fare i carbonai e poi tornavano a casa con queste donne, che si vestivano con sottanoni mai visti e per dire “chiudi la porta” dicevano “tanca sa janna”».
«Quando sono andato a stare a Montombraro», aggiunge Macchiavelli, «c’era un’anziana che era la memoria del borgo. Ci raccontava storie che davano un senso ai luoghi. Non c’entra la nostalgia o il culto del tempo andato: solo se ricordi puoi difendere un territorio, perché sai cosa significa. Nel 1325, a Zappolino, dove inizia la salita per Montombraro, ci fu una grande battaglia tra modenesi e bolognesi. Gli storici dicono che fu la più cruenta e sanguinosa di tutto il Medioevo, e il luogo si chiama ancora Prato dei morti, ma adesso ci stanno costruendo tre villaggi: con la banca, con il supermercato, e hanno potuto farlo perché nessuno ne sa più nulla».
Mi viene da pensare a Luciano Bianciardi, che negli anni Cinquanta si entusiasmava per la marcia vittoriosa della città contro la campagna e non sopportava le ubbie passatiste degli storici locali e degli archeologi eruditi, con i loro cocci e i loro buccheri. Mi chiedo se oggi, dopo la vittoria definitiva dell’urbanizzazione, non sarebbe disposto anche lui a rivalutare la memoria dei luoghi, non come tradizione da mettere sottovetro, o da evocare a scopo elettorale, ma come antologia di storie, ibrida e cosmopolita, resistente e cocciuta come certi montanari, che dopo aver girato il mondo ritornavano, con i loro figli ormai stranieri, ai castagni dell’Appennino.
«Ma io sono tornato tardi», conclude Guccini mentre si avvicina l’ora di cena, «e tante cose che facevo d’estate, non le faccio più. Da ragazzino, appena arrivavo, subito mi mandavano a tagliare il grano, in canottiera, e mi prendevo certe scottate che poi bisognava metterci sopra l’albume d’uovo sbattuto con l’olio. Adesso, uno dice l’orto, l’orto, ma l’orto me lo devono fare gli altri, perché la terra è bassa e l’età è alta, oramai. Come le montagne».

Carbonia, pranzo pre concerto

giovedì 16 giugno 2011

Keaton, il batterista di Claudio Lolli

14 giugno 2011 IlPaeseNuovo.it intervista Guccini:

Lecce - Francesco Guccini ci accoglie al termine del concerto di Piazza Palio a Lecce con il candore del cantautore alle prime armi. E’ un po’ stanco ma felice. Il concerto è andato bene e lui né è visibilmente soddisfatto. A Lecce aveva fatto il militare nel 1962, ma di quella esperienza non conserva un ricordo bellissimo.

“Lecce me la sono goduta dopo, e anche stasera”, dice. Ha un po’ fretta e lo capiamo benissimo. Ci regala dieci minuti in cui parliamo di tutto, dalla politica ai nuovi cantautori rap, da via Paolo Fabbri al nuovo album. “Per adesso ho scritto tre nuovi brani. Il nuovo album uscirà quando avrò composto anche le altre canzoni”.

Francesco Guccini classe 1940. Come ci si sente dall’alto della sua esperienza?

“Sono un semplice raccontatore di storie. Sono uno scrittore, ecco. Non sono un musicista, poeta nemmeno. Sono soltanto un narratore di storie, sia sotto forma di canzoni che di pagine scritte e quindi in prosa”.

Il concerto leccese è stato senza dubbio una serata indimenticabile per molti suoi fans. Con quali aspettative ha affrontato il live?

“Speravo che ci fosse molta gente e alla fine è andata molto bene. La serata precedente ai referendum non potevo far altro che consigliare di andare a votare”.

E’ ritornato in Salento dopo tanti anni. Nel 1962, inoltre, ha fatto due mesi e mezzo di militare a Lecce. Che ricordi ha di quella esperienza?

“L’esperienza da militare non è mai simpatica, soprattutto i primi mesi. Ricordo un gran caldo. Lecce me la sono goduta dopo, quando sono ritornato senza vincoli militari. Nel 1962 non ci facevano andare in giro a lungo”.

Secondo lei il Salento è una terra che sa guardare lontano?

“Questo non lo so. Posso dire senza dubbio che è una terra molto bella e mi auguro che sappia guardare lontano e sfruttare le diverse occasioni di sviluppo e di crescita alla sua portata”.

Ha composto versi che hanno fatto riflettere diverse generazioni. E’ una fortuna o una responsabilità?

“Innanzitutto è una fortuna, anche perché non so quale tipo di responsabilità potrei avere. Se fossi stato un cattivo maestro forse avrei qualche responsabilità, ma non credo di esserlo stato”.

Ai suoi concerti assiste un pubblico sempre molto attento e forse anche esigente. E la stessa cosa vale per il live di Lecce

“Mi auguro che rimanga a lungo questo rapporto di sano affetto con il mio pubblico. La cosa più importante che ci lega è sicuramente l’empatia. Spero che questa empatia non finisca mai”.

Se le chiedessi di darmi una definizione di concetti come l’identità e lo spirito di appartenenza, cosa mi risponderebbe?

“Oddio che domanda difficile! L’identità ce l’ho sicuramente. Sono nato un certo anno, in un certo posto e ho degli antenati con determinate caratteristiche. Poi ho vissuto la vita in un certo modo e ho quegli amici lì. Intendo lo spirito di appartenenza con queste precise sfumature”.

Scriverebbe ora un album di protesta sociale?

“Non credo di aver mai scritto un intero album di protesta sociale. Ho fatto canzoni che parlano di me e del mondo che vivo, e quindi inevitabilmente ci sono dentro caratterizzazioni sociali”.

Negli anni ci ha regalato varie incursioni nel mondo del cinema. Che rapporto ha con la settima arte?

“E’ un rapporto di puro gioco, piccole cose fatte per gioco. E’ tutto divertimento. Non ho la volontà di fare l’attore o di essere definito un attore”.

Ha una parte in Radiofreccia (il gestore del Bar Mario), avete scritto a quattro mano il brano “Ho ancora la forza” e Ligabue nell’ultimo Arrivederci mostro! Ha fatto il sequel de L’avvelenata. Che rapporto c’è tra voi due?

“Con Luciano siamo grandi amici. Ogni tanto ci vediamo, stiamo assieme e andiamo a mangiare. Ligabue è un’ottima persona”.

In politica da chi si sente rappresentato?

“Sono di sinistra e alcuni leader della sinistra italiani mi piacciono. Una volta mi piaceva Prodi, ma non fa più politica attiva. Ora mi piace Vendola soprattutto per quello che sta facendo in Puglia”.

Quale genere musicale le piace ascoltare?

“Non ascolto tanta musica. Preferisco leggere e leggo davvero di tutto. Sinceramente, però, preferisco la lettura che si può fare comodamente a letto”.

Chi apprezza tra i giovani cantautori del panorama musicale italiano?

“Sono convinto che in questo momento siano gli artisti che fanno rap ad avere qualcosa da dire. Gente come Fabri Fibra, Caparezza”.

Ha comprato i loro ultimi album?

“No. Li ascolto in macchina quando capita. Non faccio più come una volta che compravo il disco, arrivavo a casa e lo mettevo su”.

A quando un nuovo album?

“Questa è una bella domanda. Sicuramente quando avrò le canzoni giuste per farlo. Per adesso ne ho tre”.

Per chi ha scritto la canzone “La canzone della triste rinuncia” contenuta nell’album “Syanze di vita quotidiana” del 1974?

“Per me, principalmente”.

Il protagonista del brano “Keaton”, contenuto nell’album “Signora Bovary” del 1987 è realmente esistito o è una sua invenzione?

“E’ realmente esistito. E’ stato il batterista di Claudio Lolli”.

E per concludere, Guccini com’è la vita a via Paolo Fabbri?

“La casa a Bologna ce l’ho ancora e a via Paolo Fabbri alcune volte ci capito, ma ormai sono dieci anni che abito a Pavana nel paese dei miei nonni. Adesso ti potrei descrivere la mia vita sull’Appennino tosco emiliano. Mi sveglio di buon ora la mattina e vedo i boschi intorno a me. E, credimi, è molto bello”.

(Lucio Lussi)

Lorena Fontana

mercoledì 25 maggio 2011

Nostalgia dell'Osteria delle Dame

"Nel marzo del 1973 ebbi occasione di frequentare l'Osteria delle Dame in quanto ospite di un mio amico italo-americano che frequantava l'università di Bologna.Ci andammo una dozzina di volte.Lì ebbi l'onore di conoscere Francesco Guccini.Era lui di persona a servire il vino, e per un pò di volte mi diede la chitarra e mi chiese di accompagnarlo mentre cantava le canzoni di Adriano Pappalardo.Risate da morire. Era veramente uno spasso e un mito.In quell'osteria anche i muri sapevano suonare la chitarra.Peccato non esista più...Non sono più stato a Bologna da allora e penso di essermi perso molto.Bologna trentacinque anni fa era una città meravigliosa."
Lino su questo blog

martedì 24 maggio 2011

"Certo che voi di Bologna..."


Quarta di copertina del libro "Certo che voi di Bologna..." di Giorgio Comaschi

mercoledì 18 maggio 2011

Canzone per Giouanela ("Sulla strada")

Una canzone scritta da Sergio Secondiano Sacchi per Giouanela, un ambulante venditore di tovaglioli e fazzoletti di Sant'Angelo Lodigiano, cantata da Francesco nell'album dei Pambrumisti, "Quelle piccole cose" - Ala Bianca, 2008.

lunedì 16 maggio 2011

L’Osservatore Romano – 20 settembre 2009

È morto John T. Elson che nel 1966 fu autore di una clamorosa inchiesta su «Time»
Il giornalista che indagava sulla salute di Dio

di Raffaele Alessandrini (©L’Osservatore Romano – 20 settembre 2009)

L’inchiesta di John T. Elson su “Time” dell’8 aprile 1966 intitolata Dio è morto? aveva fatto grande rumore; il suo autore invece se n’è andato in punta di piedi a 78 anni lo scorso 7 settembre. E solo dieci giorni dopo “The New York Times” ha dato notizia della sua dipartita. Dopo assere stato responsabile del settore materie religiose della nota rivista fino al 1987, Elson si era ormai ritirato a vita privata. Nel 1966 però, a quattro mesi esatti dalla conclusione del concilio Vaticano II la pubblicazione di quel servizio, preannunciato da una funerea copertina nera orlata di rosso ove campeggiava l’interrogativo Is God dead? non solo avrebbe avuto un effetto dirompente sull’opinione pubblica di mezzo mondo, ma avrebbe inaugurato una stagione culturale di dibattiti e di riflessioni che in fondo non si è mai conclusa. Poiché con intensità e convinzioni diverse, fu proprio a partire da allora che perfino nel pensiero teologico – ma anche alla luce della riflessione del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer – si cominciò a parlare con una certa ricorrente attenzione di secolarizzazione, di eclissi del sacro nella società industriale e di fine della religione.

E sul finire dello scorso millennio, nel brullo panorama filosofico dominato dal pensiero debole, dall’effimero e dalla fine delle ideologie, non era infrequente sentire rimarcare il concetto, con gli accenti più disparati. Basti solo pensare alla parodia grottesca delle nevrosi dell’individualismo contemporaneo in Woody Allen che ripete il suo celebre refrain: “Dio è morto, Marx è morto e neanch’io mi sento troppo bene”. Nonostante il concetto di “morte di Dio” non fosse propriamente una novità. A cominciare da Nietzsche o da Feuerbach – i soli peraltro, tra i pensatori moderni, ad aver compreso la follia e lo scandalo del Dio crocifisso nel mondo antico. Quella follia e quello scandalo che invece sono accolti e predicati da san Paolo.

Inoltre sul concetto stesso ci sarebbe stato fin da allora parecchio da discutere. Nel 1958 l’ebreo Elie Wiesel nel romanzo La Notte aveva affrontato con gli accenti più crudi il tema della assenza di Dio nel terribile ricordo della lenta morte per impiccagione di un ragazzo in un lager nazista. In contemplazione dell’innocente trucidato riecheggiava la domanda impotente e angosciosa dell’uomo: “Dov’è dunque Dio?”; per la quale c’era solo una risposta possibile: “E io sentivo in me una voce che rispondeva: – Dov’è? Eccolo: è appeso lì a quella forca…”. 
E già nel 1944 Henri de Lubac nel suo Le drame de l’humanisme athée aveva ricordato che senza dubbio l’uomo può organizzare la terra senza Dio – e quindi giungere perfino anche a decretarne la morte. È comunque certo che “senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo”. Infatti “l’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano”. Come ripete la conclusione (n.78) della Caritas in veritate: “L’umanesimo che esclude Dio è un umanesimo disumano”.

Questa però è cultura d’élite, si potrebbe obiettare. È vero. Nessuno in pubblico, alla metà degli anni Sessanta, si sarebbe azzardato a sollevare un interrogativo come quello lanciato da Elson su ”Time” in quell’aprile del 1966. Eppure in Italia solo un anno prima il cantautore Francesco Guccini aveva scritto una canzone intitolata per l’appunto Dio è morto, lanciata poi nel 1967 dal gruppo musicale “I Nomadi”, i cui versi sarebbero rimasti impressi nella memoria – e talvolta anche nelle motivazioni ideali – di alcune generazioni di giovani, grazie anche alla voce suggestiva e intensa del leader storico del gruppo Augusto Daolio. 
Ma in quella canzone non c’era proprio nulla di iconoclastico. Anzi era un’esaltazione di valori umani e naturaliter cristiani; tanto che, al contrario del cieco bacchettonismo dei canali nazionali ufficiali, il pezzo fu messo in onda dalla Radio Vaticana. “Perché noi tutti ormai sappiamo che se Dio muore è per tre giorni, e poi risorge”.

13 maggio 2011 Urbino


Consueto bagno di folla per Guccini all'Università di Urbino, dove era stato invitato dal Rettore a tenere una lezione sulla storia della canzone italiana. Questo il resoconto del suo intervento.

Guccini a Pesaro 16 maggio 2011

Oltre cinquanta scuole superiori hanno partecipato al concorso nazionale "Francesco Guccini: cantando la nostra storia", promosso dal Liceo Scientifico Musicale “G. Marconi” di Pesaro nell’ambito delle iniziative per il 150° dell’Unità nazionale. I vincitori saranno premiati oggi 16 maggio al Teatro Rossini di Pesaro (ore 21.00) da Francesco Guccini in persona, nel corso di una serata che unirà arte e solidarietà: gli organizzatori hanno voluto, infatti, abbinare questo evento ad una raccolta fondi a sostegno della ricerca scientifica contro la distrofia muscolare di Duchenne e Becker.

giovedì 5 maggio 2011

"FG in concerto" nuovo libro Giunti



Questo non è un libro semplice.http://www.blogger.com/img/blank.gif
Non è solamente la storia della carriera live di Francesco Guccini.
Non è solo una descrizione accurata di ogni singola tournée.
Questo è un libro che si è trasformato man mano che prendeva forma e il risultato finale è la storia straordinaria, sconosciuta di un cantautore che per oltre cinquant’anni ha intrattenuto il suo pubblico creando con esso un legame strettissimo.

Chi pensa che l’avventura di Guccini sul palco sia una storia pigra, dovrà ricredersi.

Soprattutto fino al 1983 (anno in cui il cantautore inaugura la formula di spettacolo che ancora oggi lo vede protagonista) le sue esibizioni si svolgono in modi e ambiti al limite dell’informalità.
Prima di approdare alla dimensione degli stadi e dei palasport, Guccini si propone in bar, osterie, circoli culturali, club privati, carceri, fabbriche occupate o dismesse, polisportive, palestre, teatri e teatrini e, specie nei primi anni della sua residenza bolognese, senza pubblicità. In qualche caso solo una locandina esposta fuori dal locale, in altri nemmeno quella, perché l’esibizione viene improvvisata al momento. Fin verso i quarant’anni Guccini si è esibito con modalità artigianali, vicine alla tradizione del cantastorie più che del cantautore, affrontando i sentieri delle osterie, del cabaret, dell’affabulazione fulminante, per intraprendere solo dopo la strada dei grandi spazi live, affiancato da un gruppo di musicisti capace di suonare e arrangiare le canzoni con lui.

Dopo l’autobiografia pubblicata sempre per la collana Bizarre nel 2007 Portavo allora un eskimo innocente, Giunti Editore vuole rendere un altro omaggio a Francesco Guccini avvalendosi del lavoro di due straordinari ricercatori e collezionisti e di un impressionante numero di materiali inediti. Dal profondo degli archivi sono saltati fuori manifesti, memorabilia, locandine, ritagli di giornale, e si sono aggiunti alle testimonianze, raccolte appositamente per questo volume, dei tanti musicisti che hanno accompagnato il cantautore nel tempo: dagli amici della giovinezza modenese al leggendario “braccio destro” Juan Flaco Biondini, da Deborah Kooperman, la “maestra d’America” di Francesco, a Ellade Bandini, storico batterista in centinaia di occasioni.
Approfondimenti sono dedicati alla parentesi di cabaret con il gruppo degli Archibusti, agli inizi della carriera di un giovane non ancora ventenne membro del gruppo musicale Hurricanes, alle performance al Club Tenco e ai duetti con Vecchioni, la Nannini, Ligabue, ma anche all’attività in studio e alla sua vita quotidiana. Impagabili soprattutto i capitoli dedicati agli anni di leggendarie notti alla Osteria delle Dame e di album come “Radici”, come “Via Paolo Fabbri 43”, nel paesaggio diventato col tempo mitologico della prima canzone d’autore nel nostro Paese.


Claudio Sassi, novarese, collezionista e studioso di musica. Per Giunti ha scritto con Franco Zanetti Fabrizio De André in concerto e ha collaborato per la parte discografica a Pooh. La grande storia, 1966-2006 e Gaber. La vita, le canzoni, il teatro, di Sandro Neri, nonché a Portavo allora un eskimo innocente di Massimo Cotto.


Odoardo Semellini esperto di musica e fumetti. Ha curato le mostre “Beat!", “Francesco Guccini. Stagioni di vita quotidiana" e “Fabrizio De André. Così splendido e vero", in collaborazione con Roberto Festi.
È autore, con Brunetto Salvarani, dei libri Di questa cosa che chiami vita e Terra in bocca (ed. Il Margine) e Il vangelo secondo Leonard Cohen (ed. Claudiana)

venerdì 29 aprile 2011

Lectio magistralis a Urbino il 13 maggio

Nell’ambito delle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia, l’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” ospiterà la conferenza di Francesco Guccini sul tema “Canzoni e identità nazionale”. L’incontro, a cui è invitata la cittadinanza, si svolgerà venerdì 13 maggio alle ore 16 nell’Aula Magna di Magistero, in Via Saffi, 15 a Urbino. Il cantautore modenese sarà presentato dal Rettore dell’Università di Urbino Stefano Pivato e dal Presidente del Consiglio degli Studenti Stefano Paternò.

mercoledì 27 aprile 2011

Scomparso a Bologna Pietro Guccini

Ci duole comunicare la scomparsa del fratello di Francesco, Pietro Guccini, classe 1954, bibliotecario all'Università di Bologna e consigliere comunale a Minerbio.
Lascia la moglie Eva ed i figli Andrea e Malvina.

lunedì 25 aprile 2011

Matrimonio: abbiamo un filmato.

Matrimonio: ecco il menu.

LA NOTIZIA delle nozze circolava già da un po’ nel paesino come ha confermato il padre di Raffaella, ma gli sposi volevano ad ogni costo una cerimonia top-secret, una cosa intima insomma, per pochi eletti. Nessun volto noto del mondo dello spettacolo tra gli invitati, nemmeno il tanto atteso Ligabue che però parteciperà alla festa che i novelli sposi dovrebbero dare a Bologna tra qualche settimana. C’era invece Teresa Guccini, la figlia avuta dal cantante dalla ex compagna Angela, accompagnata da un amico. Per testimoni, Pierluigi Melandri amico d’infanzia di Francesco e Caterina Fenocchi, la migliore amica di Raffaella.

LA CERIMONIA, blindatissima, è durata all’incirca mezz’ora ed è stata addolcita dai versi della poesia “Sai tu” di Paulo Coelho, letta su richiesta degli sposi, dal Primo Cittadino, Pietro Cavallo amico della famiglia Zuccari il quale non ha saputo trattenersi, a cerimonia terminata dal commentare: «Sono eventi che accadono una volta nella vita, una cerimonia bellissima».

EMOZIONATO ma più compito e meno incline a sbottonarsi il padre della sposa intervistato mentre pranzava in compagnia del futuro marito della figlia, nella mattinata di ieri: «Sì sono emozionato ma… stanno insieme ormai da 18 anni, lei capisce...». Poi la corsa al ristorante con fuga dal retro per evitare i flash dei fotografi, alla Palazzina Sabatelli di Sant’Ippolito dove lo chef, Michele Renga ha studiato un menù speciale per l’occasione: strigoletto con verdure primavera, raviolo con sfoglia di patate e asparagi per primo, sfogliatina di faraona al profumo di erbe selvatiche e controfiletto di Marchigiana per secondo. Infine la torta nuziale e un ottimo vino, scelto dallo stesso Guccini che ha fama di essere un vero intenditore: Five Roses Anniversario.

di Silvia Bonci per Il Carlino di Bologna

Matrimonio - Nuove Foto

Nuove foto dal Resto del Carlino. Intanto si vocifera di una festa a Bologna nei prossimi giorni.

venerdì 22 aprile 2011

Matrimonio - da www.ternimagazine.it

Ha spiazzato tutti, fan, conoscenti, amici, media. Francesco Guccini diceva la verità a “Ma che tempo che fa”, in una delle ultime puntate, quando rispondendo ad una birichina domanda di Fabio Fazio, il “Maestrone” di Pavana, 71 anni, rispondeva che il Francesco Guccini delle pubblicazioni di matrimonio affisse al Comune di Bologna per il mese di agosto, riguardavano un omonimo. Fatto sta che il più grande cantautore italiano vivente ha detto s’ insieme alla professoressa in lettere alle scuole medie di Porretta e Gaggio, Raffaella Zuccari, 42 anni, dopo 18 anni di fidanzamento. Francesco è al secondo matrimonio.
Una cerimonia riservatissima, per pochissimi intimi nel piccolo borgo medievale di Mondolfo di Pesaro, paese natio della sposa, poco più di 11 mila anime. Raffaella, si è presentata, come tradizione vuole, con un po’ di ritardo, poi in abito bianco, al ginocchio, catena dorata al collo e un ciuffo rosso e sbarazzino ha raggiunto il suo Francesco al quale, dicono gli amici, ha donato una seconda giovinezza. Guccini le ha dedicato tre canzoni: “Vorrei”, “Certo non sai”, “Canzone delle colombe e del fiore”.
Lui giubbotto, camicia, jeans. Come tutti i giorni. C’era Teresa Guccini, la figlia avuta dal cantautore-scrittore dall’ex compagna Angela, accompagnata da un amico. La cerimonia è stata molto breve addolcita da versi di Paulo Coelho, letta su richiesta degli sposi dal sindaco Pietro Cavallo, amico della famiglia Zuccari.
La cerimonia, nel tardo pomeriggio, è stata celebrata nella sala del consiglio comunale. Guccini è arrivato con largo anticipo accompagnato dal fratello della sposa. Raffaella è scesa da una Porche. Due i testimoni di Rito: Caterina Finocchi, amica d’infanzia della sposa e Piero Melandri, amico dello sposo. Quel Piero della “Canzone per Piero” inclusa nell’album “Stanze di vita quotidiana” del 1974.
Alla cerimonia, da parte di lei, c’erano i genitori Katia Barbetti e Gian Maria Zuccai, padre, il fratello e la sorella. Al fatidico “Sì” i due sposi si sono scambiati le fedi, formate da cerchi intrecciati. Finita la cerimonia, scendendo le scale, Francesco ha detto alla moglie scherzando: “Scendi da sola le scale e dì che ti ho lasciato sola all’altare”. Il banchetto si è svolto in un locale dell’entroterra marchigiano.
LE PRIME NOZZE – Non è la prima volta che Guccini va a nozze. La prima volta risale al 1971 quando sposa, dopo alcuni mesi di convivenza, la storica fidanzata Roberta Baccilieri, per la quale aveva scritto Vedi cara. Con lei si immortalò a Santorini in una foto che fu poi usata per la copertina di Sei anni dopo si separa da Roberta e inizia a convivere con Angela, con cui nel ’78 ha una bambina, Teresa, la Culodritto della canzone, che quattro anni fa si è laureata con una tesi sui fan di suo padre e di Robbie Williams. La fine dell’amore con Angela è in Farewell, del ’93. Qualche anno ancora ed ecco comparire Raffaella al suo fianco. E ora le nozze.
Giancarlo Padula

Matrimonio - da Il fatto quotidiano

Guccini sposo silenzioso Come in una sua canzone Non c’era nessun nome noto. In perfetto stile gucciniano. E non ce ne voglia il maestrone, come lo chiamano a Bologna, se diamo notizia delle sue nozze. Sappiamo bene che non vorrebbe, ma è Francesco Guccini, 71 anni, il più “colto dei cantautori” italiani, come ha scritto Umberto Eco, l’unico che “riesce a toccare le corde che quando scrive, perché racconta la vita come nessun’altro è capace di fare”.

Non è riuscito a sfuggire ai fotografi, nonostante per il suo matrimonio con Raffaella Zuccari, 43 anni, professoressa d’italiano, abbia scelto Mondolfo, provincia di Pesaro Urbino, suggestivo borgo medievale. Mondolfo e non Bologna, perché avrebbe riempito piazza Maggiore, potete esserne certi. Come accadde nel 1984 per il concerto che celebrò i suoi vent’anni di carriera. Era il 21 giugno, e Guccini quella sera ci regalò forse uno dei più bei live della sua carriera, emozionato com’era, in un’atmosfera che aveva ancora il sapore della rive gauche parigina.

Ci vengono le lacrime agli occhi a pensare a quella notte, centocinquanta mila persone, a quella Bologna che oggi non c’è più, a uno dei momenti centrali della musica italiana. Leggete quello che scrisse il giorno successivo su Repubblica Gino Castaldo: “A memoria di bolognese, nessuno ricordava di aver mai visto tanta gente in piazza Maggiore (con la sola eccezione, forse, dei funerali per la strage del 2 agosto). Una folla sterminata, immensa, che riempiva non solo la piazza, ma anche tutta la zona circostante. E così, un po’ per caso, e con la sorpresa degli stessi organizzatori, è esplosa quella che verrà ricordata come la piccola Woodstock della canzone italiana. Non si era mai visto prima… Una grande festa davvero, di quelle che la sciocca miopia del nostro mercato musicale non promuove mai, e che invece dimostrano come la gente è pronta per eventi che sanno di autenticità e di rapporto reale coi sentimenti del pubblico. Ha chiuso Guccini, naturalmente con “Un altro giorno è andato” inno malinconico al tempo che passa, alle cose che finiscono e a quelle che iniziano, la più giusta conclusione per una serata indimenticabile e, forse, irripetibile”.

Forse non credeva neanche lui, Castaldo, di trasformarsi in profeta mentre picchiettava sulla macchina per scrivere. Oggi Guccini non ha più 44 anni, ne ha 71. Ma sembrava più giovane allora e lo sembra ancora oggi, soprattutto quando sale sul palco, come una settimana fa, a Parma: palazzetto dello sport sold out, lui in piedi per due ore di seguito, trascinatore e trascinato dal pubblico.

Chiusa la parentesi nostalgica, la cronaca della giornata non promette niente di buono per i divoratori di gossip. Guccini si è presentato in jeans e camicia, la sposa in abito bianco, ma non da matrimonio. Nessun ospite di calibro, neppure gli amici storici di Bologna, i compagni di osteria, o quelli di Pavana, fatta eccezione per il compagno di giochi cresciuto fra la via Emilia e il West.

Ha festeggiato con pochissime persone, i parenti di Raffaella, e la figlia di Francesco, Teresa, blogger del nostro giornale e che lavora nell’agenzia che organizza i concerti di Guccini, Paolo Conte, Gerardo Balestrieri e un’altra serie di ottimi giovani di cui sentiremmo parlare, alla quale Guccini dedico una canzone nell’album Signora Bovary.

Non ci resta che fargli gli auguri, a tutti. Il 1984 non tornerà mai più, non torneranno quegli odori che permisero al maestrone di comporre pezzi irripetibili come Incontro, Eskimo, La Locomotiva, Un altro giorno è andato e, in anni più recenti, Canzone delle domande consuete, Cirano e, quel capolavoro, a ritmo di tango, che è Scirocco. Ma consapevoli che Guccini può ancora regalare emozioni a non finire durante i suoi concerti. Da single, convivente o sposo che sia.

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Matrimonio - da Repubblica Bologna

Guccini sposa Raffaella con un sorriso
"Di' che ti ho lasciata sola all'altare"/FotoLa cerimonia in Municipio a Mondolfo, nel Pesarese, dove la compagna è di casa.
Infastidito dai fotografi ("Maestro un paio di...") il cantautore si scioglie dopo il sì
di MARCO MAROZZI

"Buona sera maestro". Il saluto del fotografo è encomiastico. La reazione è ridente ma un poco più popolaresca. "Sì, maestro...". Il resto non importa. Non è stato felicissimo Francesco Guccini di trovarsi in una specie di Mondolfo Boulevard per il suo matrimonio nell'epoca dei 71 anni.

Pensava tutto avvenisse in segreto. L'Ansa ha diffuso la notizia alle 9 di mattina. Lui alle sette di sera è scappato alle feste di foto e di popolo, la gente del luogo se ne è avuta un poco a male. A salvarlo dall'immagine del burbero a tutti i costi, che si spezza ma non si piega, c'era Raffaella, ovvero Raffaella Zuccari, già ragazza bene di Mondolfo, figlia di medico e imprenditrice, professoressa d'italiano, da ieri sera signora Guccini.

Matrimonio gucciniano quello celebrato sulle colline di Pesaro. A Mondolfo, padre nobile della marina Marotta. A sera al bar Centrale, da cui si era potuto osservare prologo e fine della cerimonia (avvenuta nel chiuso della sala di giunta con porta blindata) i commenti ballavano. "A me Guccini mi è sempre piaciuto". "Ma poteva concedersi un minuto". "Ohi, per me è un po' monotematico". Tutti d'accordo su Raffaella. "Bella, sorridente". Il noto femminista Francesco Guccini ha avuto il miglior matrimonio possibile. Lezione amorosa di stile dalla giovane moglie. Atmosfere, facce, versi, squarci, parole di marmo e di popolo che sembrano una sua canzone.

L'ultimo sole batteva sulle pietre di piazza Mario Del Monaco. Il corteo nuziale è stato accolto da striscioni che annunciano la Festa del Magnafava. Il sindaco Pd Pietro Cavallo a giorni va alla rielezione, ma pure lui è scappato da ogni flash e dichiarazione.

La cosa buffa è che forse tanto pudore pubblico è dovuto più al rispetto che il dottor Gian Maria Zuccari, "il medico" di Mondolfo, ha in paese più che al carisma del Maestrone. Da quelle parti lo amano ma le ragazzine ieri chiedevano: "Viene Ligabue?". Giornalisti annoiati giocavano con tutti quelli che hanno o hanno avuto rapporti con Guccini. "Viene Dalla, Morandi, Paolo Conte". Nessuno però tirava come il Liga.

Delusione salvata dall'apparizione splendida di Raffaella. Lei sì da Hollywood Boulevard con garbo. Vestito bianco ma non nuziale, elegante e semplice, bella come le sorelle e le bimbe delle sorelle con i bouquet bianchi. Guccini è entrato dal retro del muncipio, in giubbetto nero da tenebroso. Lei dall'entrata principale, con sfilata di famiglia fra due ali di concittadini plaudenti e orgogliosi. Nessun nome noto, solo Piero Melandri, l'amico più antico di Guccini, roba da bimbi a Pavana, quello di Canzone per Piero. Testimone per lo sposo. Equilibrato per sfuggire da ogni ritorno al passato da Caterina, amica e coetanea della sposa. Francesco per equilibrare le belle di Mondolfo ha potuto contare su Teresa, la figlia. Nata nel 1978, Culodritto nell'album Madame Bovary : "Vola, vola tu, dov'io vorrei volare/ verso un mondo dove è ancora tutto da fare/ e dove è ancora tutto, o quasi tutto, da sbagliare".

Lo sposo, teso prima della cerimonia, solo dopo il sì, ha scherzato con la moglie: "Scendi da sola le scale e dì che ti ho lasciata sola all'altare". Poi i due hanno preso l'ascensore e imboccato l'uscita secondaria evitando i fotografi.

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Matrimonio - dal Corriere di Bologna

il matrimonio NEL PAESE DI LEI, NELLE MARCHE
Guccini sposa Raffaella, le nozze a Mondolfo
Il cantautore ha detto «sì» alla donna che gli sta accanto da 15 anni. Per lei abito bianco, lui in jeans e giubbotto .


Il «grande giorno» di Francesco Guccini? In jeans, camicia blu a righe e giubbotto scuro. Si è presentato così, il cantautore 71enne, nel municipio di Mondolfo, nelle Marche, dove nel pomeriggio ha sposato la compagna Raffaella Zuccari, 43 anni. Per lei un abito bianco al ginocchio, con bouquet di tulipani.
IL MATRIMONIO - Il matrimonio, nella sala della giunta del Comune di Mondolfo - città di origine della sposa - è stato celebrato dal sindaco, Pietro Cavallo. Il primo ad arrivare, come da copione, è stato lui, accompagnato dal fratello di lei, il giornalista Jacopo Zuccari: i due - dato l'assembramento di fotografi fuori dal Comune - sono entrati passando da un ingresso laterale. La sposa, scesa da una Porsche, è arrivata a braccetto del padre, il medico pediatra Gianmaria Zuccari. La cerimonia è stata solo per pochi intimi: i familiari stretti e qualche amico. Al termine, i consueti regali agli sposi: per lei un mazzo di fiori, per lui una pergamena con la poesia Sei tu di Paolo Coelho. Poi la coppia è uscita, passando - ancora una volta - da un'uscita secondaria.
NOZZE SEGRETE FINO ALL'ULTIMO - Guccini e signora, insomma, confermano la loro riservatezza. Fino a questa mattina, infatti, era ancora tutto top secret. Un mese fa erano comparse le pubblicazioni a Bologna a Palazzo d'Accursio (visto che Guccini è residente a Bologna, anche se da anni abita a Pavana), ma il cantautore aveva dribblato ogni domanda: «Se mi sposo? Chi lo sa, adesso vediamo», aveva detto.
LA COPPIA - Fino ad oggi, giorno del suo «sì». Il secondo, dopo le prime nozze, nel 1971, con la storica fidanzata di allora, Roberta Baccilieri. Con lei Guccini si separò sei anni dopo, poi arrivò un'altra donna e infine ecco Raffaella: figlia del medico di Mondolfo, dottore di ricerca in letteratura italiana all'università di Bologna e professoressa alle scuole medie di Porretta e Gaggio. Dall'incontro tra la professoressa e il «maestro» sono passati quindici anni: e i due non si sono mai separati.

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giovedì 21 aprile 2011

21aprile 2011 oggi alle 18 Guccini si sposa


A Mondolfo, nelle Marche, paese della amata Raffaella Zuccari. Viva gli sposi!

lunedì 18 aprile 2011

Anche per Teresa Guccini non ci sono più le osterie di una volta.

Da "Il fatto quotidiano" di Bologna del 9 aprile 2011

Una Bologna che muore
Bologna io me la ricordo com’era una volta. Ho avuto la fortuna-sfortuna di viverla in maniera tangente. La fortuna di vedere un universo oramai mitizzato che non esiste più, la sfortuna di provarne nostalgia e di non vedere un reale passaggio di testimone con i ragazzi della mia generazione.

A Bologna c’erano le osterie. Ricordo le Dame e Vito. Ricordo le serate intrise di fumo a coprire tutto come una coltre; perché allora si poteva ancora fumare. Si bighellonava fino a tarda notte, si giocava a carte e si cantava, poi erano solo vino e discussioni e politica.

Ricordo tutti questi volti che ho poi imparato a collocare tra le persone famose ma il ricordo è sfumato perché io ero bambina. Ricordo quando per la prima volta mi sono resa conto del concetto di famoso. Per me erano solo volti consueti o amici di casa, poi ho capito che erano anche qualcosa di diverso. A sera, salivo sulle ginocchia di qualcuno e si provava a cantare, oppure ascoltavo quelle voci, quei suoni, quelle atmosfere confuse e cercavo di ridere anch’io di battute e discorsi che non afferravo fino in fondo. Ma chissà perché quei grandi ridevano così tanto? E chissà per cosa.

E poi quel frate. Quell’uomo sempre sorridente che doveva stare in chiesa, mica lì con quella strana tunica a quelle serate. Che strano. Chissà cosa ci faceva un frate in osteria fino a tarda notte; mi chiedevo: “Babbo che ci fa un prete in osteria?” “Ci lavora”, mi rispondeva mio padre tranquillo. Ma non ero mai del tutto convinta.

E poi gli scherzi e tanti. Era una Bologna goliardica e profonda. Da quelle notti nascevano canzoni, fumetti e libri. Ma lo avrei imparato solo molto più tardi, quando ho collegato che tutto il mondo che faceva parte della mia vita d’infanzia era qualcosa di più. Era un momento sociale preciso e importante, un movimento quasi, un passaggio di un’epoca culturale. Ma per me, allora, e in parte ancora oggi, erano solo voci e momenti destinati a spegnersi sempre in maniera soffusa, a poco a poco, quando gli occhi non reggevano più la stanchezza e il sonno cancellava ogni cosa.

A Bologna esisteva ancora un mondo che adesso sta morendo. I negozietti di quartiere: latteria, macellaio e panettiere ad ogni isolato, gli anziani in bicicletta con le mollette ai pantaloni e il pollaio nei giardini dietro casa. La mattina si sentiva ancora il gallo nei giardini delle case operaie di primi novecento della Cirenaica. Un mondo antico che resisteva ancora, nascosto ma non troppo, agli inizi degli anni Ottanta. Al bar Roberta, dietro casa, mi regalavano ancora la spuma. Che gioia! Quella bibita giallo fluorescente e frizzosa. Come le caramelle pillichine, come le chiamavo io. Ve le ricordate? Si mettevano in bocca e venivano i brividi dappertutto.

A Bologna si poteva arrivare in macchina in Piazza Maggiore e posso davvero giurarlo perché ho il netto ricordo di un’alba vista dalla R4 dei miei genitori. Si partiva con il pullman dalla piazza. Adesso si rischierebbe di essere arrestati.

A Bologna oggi è arrivata la primavera. E quello non è mutato. E’ rimasto uguale. Quell’odore inconfondibile che solo un vero bolognese riconosce. Non è un’aroma definito o distinguibile, è un insieme calibrato di erba tagliata, di ozono e di fiori. Un insieme elettrico che avvolge tutto e ti obbliga a uscire di casa, a saltare in sella al motorino e ad andare sui colli a prendere il sole e a mangiare una tigella Dal Nonno o a bere un bicchiere di vino all’Osteria del Sole verso sera, con gli amici di sempre, prima che cali la luce.

giovedì 14 aprile 2011

Non poeta, ma RAPSODO

Stefano Rotta Gazzetta di Parma, 6 aprile 2011
Lo dice quasi spaventato, con il rispetto che si prova per una cosa più grande di sé: «Non sono un poeta». Francesco Guccini è un rapsodo: o così l’avrebbero chiamato i greci, amanti di versi viandanti, veri, forti e per niente istituzionali. La chiacchierata per presentare il concerto del 14 aprile, parte da qui: dalle isole ioniche, da Itaca, dalle avventure di sale e sole narrate da Omero.
Lei ha scritto «Odysseus», ritratto di un eroe acheo ribattezzato dai romani Ulisse. Un florilegio di citazioni letterarie, ma anche la storia di un uomo vero e un poeta cieco, guardati dritti negli occhi. Chi oggi è Odysseus?
«Di gente che parte ce n'è ancora. Avventure estreme, esplorazioni strane, per oceani a remi o alla scoperta di nuovi camminamenti montani. Ma l’Odissea è una gigantesca metafora. E’ il cercare qualcosa in più. Spingersi oltre. Anche nella vita quotidiana, che spesso ricalca il mito»
Gli accenni all’«anima contadina», all’«isola petrosa», il verso «il vino e l’olio erano i miei ori», riportano a un mondo che forse lei ha ritrovato in Appennino. Racconti...
«Ho scelto di vivere nelle montagne che mi hanno visto bambino. E’ una vita profondamente diversa da quella della città. Meno caos, rumori, velocità. Ma soprattutto ci si saluta, anche fra sconosciuti. Ognuno qui ha la sua fetta di Appennino, un fiume, un monte, un bosco... ».
Appennino e Resistenza. Cosa vuol dire oggi esser partigiano?
«Cercare di opporsi a chi sta distruggendo quanto fatto dai padri. Un’Italia democratica e libera. Per esempio, difendere la Costituzione»
Appennino ed emigrazione. Perché talvolta non ci si dimostra pronti ad accogliere?
«L'uomo, non tutti per carità, guarda pochi metri accanto a sé. E si scorda presto. La storia è maestra di pochi. Insegna poco davvero, a noi italiani. Siamo partiti con le pezze al culo, e adesso ci dimentichiamo che chi viene qui ha la stessa faccia di noi cento anni fa. Ecco, Odysseus su questo avrebbe qualcosa da dire»
La Locomotiva. Una canzone che va fatta per forza, o la sente ancora?
«Tutt'e due. Certo, se la cantassi da solo in casa sarei un matto. Ma vedere tanta gente in piedi: è un pezzo che ha bisogno del pubblico come spalla. Ci vuole simbiosi»
Che effetto fa vedere ragazzi, di mezzo secolo più giovani di lei, che la cantano, al di là delle idee politiche?
(Si imbarazza, e poi dice) «Certe cose rimangono, se Dio vuole. I poeti si leggono dopo secoli. Io non sono un poeta, forse non arriverò ai prossimi secoli (sorride, ndr). Prima o poi si smetterà di cantare la Locomotiva. Ma che bello, vedere questi ragazzi con i telefonini, i computer, un nuovo linguaggio, che cantano quelle parole...»
Dov'è la poesia nel 2011?
«Domanda curiosa. Non so dove stia di casa. La poesia parte da dentro di sé. Fuori dalla finestra si sta risvegliando il torrente dall’inverno. Ma anche i muri vecchi e sporchi di una città, possono essere poetici, se negli occhi c'è poesia che guarda».
Altro verso mitico. «Piccola città, bastardo posto». E’ Modena, negli anni Cinquanta. Va bene pure per Parma?
«Non la conosco bene, non posso dirlo. Nella mia fantasia, Parma è sempre stata una città elegante, con persone che girano... (cerca le parole, non ne trova, decida il lettore come girano i personaggi di Parma nella fantasia di Guccini, ndr). Sì, se ci fossi stato allora, sarebbe interessante il paragone».
Come sarà il concerto?
«Niente note particolari. Spero ci sia pubblico, si riempiano le sedie. E’ una spalla indispensabile».

lunedì 11 aprile 2011

Guccini ad Ancona 8 aprile 2011

"Sono anconetano, ed ho comprato una villa ad Ancona!" Si presenta così sul palco del PalaRossini Francesco, parodiando lo stile del PresDelCons. E poi prosegue: "Ruby Rubacuori? Ma che nome è? E' come se Rocco Siffredi si presentasse come 'Galeazzo Granbelmazzo'!"
Palasport strapieno, erano in cinquemila ad ascoltarlo, tutto completo!

venerdì 8 aprile 2011

Sabato a Porretta apre Gomma Bicromata

Francesco Guccini dedica una poesia alla nuova galleria d'arte Gomma Bicromata che apre sabato e brinda a un nuovo ritrovo per biasanòt (tiratardi) dove si potrà "fare quattro chiacchiere, giocare a carte, bere vino buono". Per Guccini, che ormai da anni si è trasferito a Pavana, la galleria Gomma Bicromata ha un pregio in più: è a Porretta, aperta tutto l'anno, per l'incredulità del cantautore "Una galleria d'arte? A Porretta? Aperta tutto l'anno? Allora arrivederci in galleria!". Sabato 9 aprile alle 17 l'inaugurazione dello spazio voluto da Paolo Rippoliti, che ha allestito un piano della sua casa per ospitare opere di Pirro Cuniberti, Adriano Avanzolini, Maurizio Osti, Concetto Pozzati. La mostra "Quando l'arte va alla montagna" rimarrà aperta tutti i giorni dalle 17 alle 20 fino al 25 aprile. Per chi non ama l'arte, comunque un posto con "sedie e tavolini per stare assieme", come scrive Guccini, lontano dal centro di Bologna ma vicino allo spirito delle notti bolognesi care al cantore di via Paolo Fabbri - Repubblica 8 aprile 2011 articolo di ELEONORA CAPELLI