giovedì 4 marzo 2010

Tango italiano

recensione di Roat, F., L'Indice 1998, n. 1

Qual è il senso dell'approdo in Argentina (onirico o reale, poco importa) narrato nell'ultimo racconto-resoconto di Rino Genovese? Cosa rappresenta la figura del viaggiatore di questo nuovo "falso diario" latinoamericano - il cui spunto questa volta non è rappresentato da Cuba, come nel precedente "Cuba, falso diario" (Bollati Boringhieri, 1993), ma dalla peregrinazione attraverso una Buenos Aires straniante - e il suo trascinarsi con lo sguardo da visitatore di un acquario per una metropoli degna del miglior Borges, se non l'occasione di osservare se stesso e l'Italia dagli antipodi, guardando ai propri casi dall'altra sponda dell'oceano?
In uno stato di perenne dormiveglia, l'io narrante, "dandy pagato dallo Stato" per una non ben precisata ricerca a livello universitario, percorre dunque Buenos Aires senza una meta precisa che non sia il lasciarsi andare, il perdersi nella malinconica geografia delle sue vie, disseminate di sconnessioni e buche, allusive forse al tragitto mai piano o pianificabile dell'esistenza stessa, in una sorta di preparativo di viaggio all'insegna di una peregrinazione virtuale, tutta giocata sull'immaginario. Giacché l'indagine di Genovese, più che rivolta a esplorare spazi concreti pare attenta a riflettere sulla Storia recente argentina: dalla rivolta studentesca e operaia del '69, preludio alla crisi della dittatura di Onganía, sino al ritorno di Perón, e al colpo di Stato.
In compagnia di una giovane neoperonista, Eva, dal nome sin troppo evocativo, il protagonista vagabondando per Buenos Aires, la città "costruita sopra un cimitero", ripercorre il passato di stragi, torture e dei trentamila "desaparecidos", interrogandosi sulle ragioni della malinconia di questa metropoli "letteraria e terribile", forse non riconducibile solo alla tristezza del sottosviluppo, ma a un orrore che non si può esorcizzare quando i giornali e la televisione ti costringono ad assistere alla macabra girandola di pentimento/giustificazionismo da parte degli assassini. Il regista Solanas, candidato (senza alcuna "chance") alla presidenza della Repubblica, affida al protagonista l'incarico di stendere un rapporto sull'Italia. Così la prospettiva si ribalta, nel tentativo di focalizzare i tratti peculiari di una "patria impossibile", che appare come un'Argentina "senza mito e senza tragedia", una "frontiera moderata" del mondo, dove tutto sembra stemperarsi in conformismo, cinico disincanto o rassegnazione.
Disincanto che è pure l'angolo prospettico da cui Genovese, nel suo vagabondare da "flaneur" solo all'apparenza svagato, raffigura situazioni e persone con una felicità di scrittura che maschera una prosa sorvegliatissima e calibrata nel dosaggio di scampoli di Storia e vita, cui si alternano gli intervalli d'una accidia tutta letteraria che, se favorisce la disamina interiore, s'accompagna pur sempre al peregrinare attraverso i luoghi d'una leggenda (la città labirinto di Borges, appunto).Questi sono a loro volta scaltri pretesti per commenti, note didascaliche e riflessioni tra il politico e il sociologico, talvolta un po' forzate all'interno di un testo narrativo. Il progetto di misurarsi col passato per poter meglio fronteggiare l'oggi - cioè fare storia strappando "brandelli di possibilità alla pesante trama dell'esistente" - viene però frustrato dall'opacità e dallo stallo di un presente in cui Genovese non riesce a cogliere segni di rinnovamento.
Ma "Tango italiano", di là dalle tentazioni saggistiche, si può anche leggere come un racconto d'amore irrisolto non solo per l'enigmatica Eva (o l'Argentina), ma anche per l'Italia. Meglio, come la narrazione di pluri-mi rapporti d'amore-odio.Ritornato dall'America al luogo di partenza e appartenenza, Genovese conclude che, se la vita e la storia ci paiono "un girare a vuoto e un movimento immobile", ciò non comporta la necessità di ridurle senz'altro alla rappresentazione intellettuale di un labirinto senza sbocchi.
Così il protagonista, in un ritorno di fiamma d'entusiasmo, nella pagina finale che reinnesca in modo simpatico l'avvio del libro, opterà per la non facile decisione di testimoniare la propria crisi mediante un "diario", assai più pubblico che privato, alla scoperta della realtà contemporanea, assumendo coraggiosamente su di sé la mai lieve responsabilità "del dire e dello scrivere".

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