lunedì 8 febbraio 2010

La Stampa 6 feb 2010

intervista di FRANCO GIUBILEI

Pàvana dell’infanzia, con il mulino di famiglia e mamma Ester che avrebbe voluto diventasse un professore di Storia, mica un cantautore. Modena e la scena beat Anni Sessanta, nata quasi per caso dalle bande musicali di balera dove suonava indossando improbabili giacche a scacchettoni in complessi «un po’ così, alla va là che va bene». La Bologna delle osterie di fuori porta che ormai non ci sono più da un pezzo, perché sono morte, ma per le quali «è inutile piangere sul latte, pardon, sul vino versato». E poi ancora Pàvana, il borgo dell’Appennino dov’è tornato a vivere dieci anni fa perché «il cerchio si sta chiudendo e a un certo punto si torna là da dove si è partiti, al luogo che ha fatto e continua a far sognare», riflette a mezza voce Francesco Guccini, tanto raffreddato da aver dovuto rimandare il concerto di ieri a Pesaro.

Più che un’autobiografia in senso stretto, è un racconto di luoghi e di sapori perduti, come gli umidi cucinati dalla nonna che gli regalò la prima armonica a bocca e la prima chitarra, Non so che viso avesse. La storia della mia vita, appena uscito per Mondadori, con quel titolo che riprende il celebre attacco della Locomotiva: «Come se in vita mia avessi scritto solo quella e altre tre canzoni», brontola Guccini cercando di tenere a bada il gatto di casa. Poi gli chiedi come gli sia venuto in mente di scrivere un libro su di sé, lui che ha sempre fatto canzoni e, semmai, dei romanzi – «Sto scrivendo un nuovo giallo in coppia con Loriano Macchiavelli lavorandoci un po’ svogliatamente» - e il cantautore risponde papale papale che «me l’hanno proposto e mi ci sono trovato quasi mio malgrado. E siccome sono pigro, per invogliarmi mi hanno anche detto che Alberto Bertoni (autore della seconda parte del libro, ndr) aveva già scritto un mucchio di cartelle».

Cominciamo da Pàvana allora: cosa è stata nel passato e cosa rappresenta ora?
«È stato il luogo centrale della mia infanzia: io sono nato a Modena ma sono venuto qui da piccolissimo, per poi andare via, ritornarci dieci anni fa e continuare a viverci. È il luogo mitopoietico al quale ritornare, anche perché il cerchio si sta chiudendo e questo è il luogo che mi ha fatto e continua a farmi sognare. D’altra parte la città è ancora più inquinata di una volta, invece questo posto è ancora abbastanza integro, anche se i contadini di sopravvivenza non ci sono più e oggi ci sono gli immigrati, che non danno alcun fastidio».

Lei però ogni tanto scende a valle, a suonare dal vivo anche La locomotiva, il cui incipit dà il titolo al libro e che i ragazzini ascoltano ancor oggi col pugno chiuso alzato.
«È il mio mestiere, nessuno mi obbliga a farlo e io lo faccio volentieri. Il titolo poi è un’idea dell’editor, anche perché alla fine sembra che nella mia vita abbia scritto tre o quattro canzoni, mentre il mio repertorio è un pochino più vasto. Comunque è una piacevole condanna e poi Bertoni fa giustizia degli altri brani nella seconda parte del libro. Se poi i ragazzini apprezzano La locomotiva, meglio così: dover cantare per i reduci sarebbe tristissimo. Significa che queste canzoni continuano a dire qualcosa anche oggi. Incontro ragazzi che vengono a vedere anche cinque concerti di seguito e mi dicono che è un’esperienza sempre diversa. Bontà loro, io non reggerei».

Modena, la «piccola città bastardo posto», è un altro luogo importante: com’è diventata l’epicentro del beat italiano?
«Non c’è una ragione precisa, è stato l’incontro casuale di diversi talenti. Tutta l’Emilia in realtà era piena di gruppi rock all’epoca e, tutto sommato, lo è ancora. Poi l’abilità di produttori, come Pier Farri dell’Equipe 84 e di Dodo Veroli dei Nomadi, li ha fatti emergere. Il periodo modenese per me è stato importante per il rapporto con quegli strani amici che erano i musicisti dell’Equipe, dei Nomadi e con Bonvi. Però era anche una città molto piccola e i tempi erano abbastanza tristi: si sognava molto, si realizzava poco e c’era ancora la povertà del dopoguerra. È stato a Bologna che si è aperto tutto, perché era una città dal respiro più ampio».

Ha nostalgia di quella Bologna, ormai scomparsa da tempo?
«È una nostalgia moderata della propria giovinezza, non è che mi strappi i capelli. Certo è stato un periodo bello, vivacissimo, interessante, con un tessuto sociale che non esiste più e un modo di essere che non è sopravvissuto, come le osterie raccontate nel libro. Forse è la tv che lo ha corrotto, la gente oggi sta molto in casa, mentre un tempo era una città vivace».

E delle vicende politiche attuali, delle dimissioni di Delbono, che cosa pensa?
«Non è una cosa piacevole, anche se Bologna tutto sommato ha ancora una buona struttura sociale, ma qui si rischia di dire cose retoriche. Va anche detto che i personaggi alternativi a Delbono non penso siano da rimpiangere. Non credo che Cazzola sarebbe stato un sindaco migliore».

È vero che festeggerà i 70 anni con un concerto a Modena?
«Farò questo concerto a Modena ma non per i 70 anni, che a dire il vero cerco proprio di non festeggiare... Mi piace stare sul palco, parlare con la gente, è un bel rapporto e la chiave è quella di sempre. Come dico sempre: non mi sarei mai dipinto il culo di verde per piacere di più. Ho buoni musicisti e insieme ci si diverte, l’importante è che non diventi un impiego fisso».

1 commento:

  1. porca miseria, per il maltempo non sono riuscita ad andare a Pesaro...

    RispondiElimina