giovedì 11 febbraio 2010

Recensione - Il Foglio 10/2/2010 -di Annalena Benini


10 febbraio 2010
Sarà anche pudica, ma non è un’autobiografia
La delusione di leggere Guccini in cerca di amori e trovare soltanto lagne

Se si ha molto “pudore e un’inusitata ritrosia”, se non si ama parlare del proprio lavoro, delle proprie canzoni e della propria vita, se si sbuffa quando qualcuno fa una domanda che vada oltre il dramma della scomparsa delle osterie in Emilia, la soluzione non è complicata: si può evitare di scrivere un’autobiografia. Perché se una fan di Francesco Guccini, che continua ad ascoltare le sue canzoni nonostante ci sia subito qualcuno pronto ad alzarsi in piedi di scatto, imitare la voce con la erre gorgogliante e dire cose alla rinfusa tipo: la locomotiva, la rivolta, le cicche e il vino rosso, trionfi la giustizia proletaria, il progresso è cattivo, beviamoci un fiasco, se insomma una che lo ama ancora compra “Non so che viso avesse – la storia della mia vita” di Francesco Guccini (Mondadori, 18 euro), poi si aspetta di trovarci davvero la sua vita, o almeno qualcosa di personale, una pena d’amore dopo i dodici anni d’età, un litigio, una figuraccia, una storia non ancora sentita.

Non soltanto la descrizione del mulino del bisnonno e della latrina in comunicazione con il pozzo nero, non di nuovo il racconto della povertà, niente soldi per andare al cinema, niente soldi per le sigarette, e anche sua mamma per tutta la vita “attenta al centesimo”, mai andata da nessuna parte, solo in viaggio di nozze a Firenze dissetandosi alle fontane (ma Guccini ha successo dagli anni Sessanta, sua mamma era ancora giovane: il figlio grato e famoso l’avrà portata un po’ in giro, si spera, le avrà fatto dei regali, gli emiliani taccagni sono insopportabili).

Insomma persino Eugenio Scalfari ne “L’uomo che non credeva in Dio” ha raccontato che da bambino faceva vestitini per le bambole all’uncinetto e da grande ha avuto una vita sentimentale turbolenta, Gad Lerner in “Scintille” ha rivelato la rivolta totale contro suo padre, Marguerite Duras ha scritto che pensava tutto il tempo ai soldi e che il suo famoso amante indocinese le faceva schifo ma pagava lo champagne, invece Francesco Guccini non scuce niente di niente a parte la solita storia della vita semplice con il burro fatto in casa, un paio di articoli di quando faceva il giornalista alla “Gazzetta dell’Emilia” (ecco, quelli non erano necessari) e gli esordi come cantante di balera (ovviamente povero, niente soldi per la benzina, niente soldi per gli amplificatori, niente soldi per portare fuori una ragazza, “vita grama”: mai oserei dare di bamboccione a Guccini, che ha quasi settant’anni, però lamentoso sì).

Ma la cosa più assurda, per chi ha comprato un libro con la scritta in copertina: Francesco Guccini, è che dopo 113 pagine, cioè esattamente a metà autobiografia, compare la scritta: “Questa è un’autobiografia scritta a quattro mani. Francesco Guccini, per pudore e inusitata ritrosia, non ama parlare del proprio lavoro e soprattutto delle proprie canzoni, perciò dà la parola all’italianista, e amico, Alberto Bertoni”. Che fa l’esegesi dell’opera “del Guccini”, definendolo “autore scomodo”, “invidiato anche da poeti con quattro quarti di nobiltà”, una sviolinata imbarazzante per ringraziare il ritroso Guccini della sua mostruosa pigrizia: impegnato a vivere meravigliose avventure e grossi intrighi che mai rivelerà, non ha avuto il tempo di arrivare in fondo al libro. Unico dettaglio concesso: “Nel dicembre ’78 sono diventato padre”. L’italianista è più generoso: “Dopo la nascita della figlia, nel ’79, Francesco si ritira dalla scena bolognese per accudire Teresa nella tranquillità appenninica di Pàvana”. Le date sono sbagliate perché anche i correttori di bozze erano molto ritrosi e molto pudichi.

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